La grandinata di donne e giovani rivoluziona il Palazzo inamidato

Loading

«Si può vincere una guerra mandando al fronte i vecchi?». Lo chiese anni fa un grande vecchio, Umberto Veronesi. Parlava di «guerra» da vincere nella ricerca, ma il tema vale anche per la politica, l’economia, la società . Erano decenni che l’Italia non aveva il coraggio di scommettere sui suoi giovani e sulle sue donne come ha scommesso col voto di lunedì. Decenni.
C’è chi dirà  perplesso: ma l’esperienza? Può essere un problema, certo. Inizialmente lo sarà  senz’altro. Ma visto il malinconico declino che viviamo da anni a dispetto di una classe dirigente fin troppo «esperta», ti viene in mente che forse non aveva torto Antonio Martino quando in tempi lontani sbuffò: «Abbiamo fatto esperienza dei politici d’esperienza e non è stata una bella esperienza».
C’era da vergognarsi, fino a ieri, del maschilismo del nostro Parlamento. Nell’ultima classifica sulla presenza di donne nelle Camere basse di tutto il mondo compilata dalla «Inter-Parliamentary Union», eravamo (con poco più del 21% di deputate) al 55º posto. Staccati non solo dal Ruanda, dove i reciproci genocidi di Hutu e di Tutsi hanno spinto a investire massicciamente sulle donne (56,3% dei parlamentari), ma dalla gran parte dei paesi europei. Primo fra tutti la Finlandia che a un certo momento si ritrovò una donna alla presidenza della Repubblica, una donna alla guida del governo e 12 ministri donna su 20.
Ancora più umiliante, del resto, è la classifica delle donne inviate dagli elettori europei al Parlamento di Strasburgo nell’ultima tornata del 2009. Con 18 donne su 72 euro-parlamentari siamo ventiquattresimi su 27 paesi: solo la Polonia, la Repubblica Ceca e Malta (che però ha solo 5 rappresentanti) ne hanno elette meno di noi. E va già  un po’ meglio che in passato: nella legislatura 1999-2004, di euro-parlamentari donne, ne avevamo 11. Contro le 34 della Spagna, le 37 della Germania e le 40 della Francia.
Quanto alle Regioni, un numero dice tutto: su 20 presidenti (per il Trentino-Alto Adige il ruolo viene svolto a turno da chi guida la provincia di Trento e quella di Bolzano: il risultato non cambia) c’è una sola governatrice, l’umbra Catiuscia Marini. Fine. Quanto ai comuni, nonostante le donne siano il 52% della popolazione, i municipi guidati da una donna sono solo il 9,8%. Di più: dopo l’uscita di scena di Letizia Moratti a Milano e Rosa Russo Jervolino a Napoli neppure una delle prime venti città  italiane ha una sindaca. Di più ancora: quasi un terzo (per l’esattezza il 32%) delle giunte comunali non ha neppure un assessore donna.
Il tutto nella scia di una storia di misoginia. Basti dire che le italiane votarono per la prima volta nel 1946, cioè 77 anni dopo le donne americane del Wyoming, 53 dopo le neozelandesi, 44 dopo le australiane, 27 dopo le belghe, 24 dopo le austriache, 25 dopo le armene… La prima donna ministro, Tina Anselmi, arrivò nel 1976: dopo 836 maschi. Insomma l’ostilità  nei confronti dell’impegno politico femminile è stato tale, storicamente, da spingere Giuliano Amato a confidare: «Un giorno mi sognai di proporre una donna al Quirinale: mi guardarono sconcertati. Manco avessi proposto un coleottero!»
L’irruzione in Parlamento di tante deputate e tante senatrici da rappresentare il 31% del totale, per un paese come il nostro che meno di dieci anni fa aveva solo il 9,8% di presenze femminili, è dunque una svolta storica. I partiti che ci hanno creduto di più, dicono i numeri, sono il Pd (41% della forza parlamentare) e il Movimento 5 Stelle: Grillo aveva detto che avrebbe fatto eleggere più donne che uomini e non ce l’ha fatta, ma le grilline sono comunque il 38%. Seguono nell’ordine il Pdl e l’Udc (22%), Sel (20 %) e, ultima, la Lega Nord: 14%.
Salutare come una benedizione l’allegra grandinata di donne là  dove si fanno le leggi non è una questione di galanteria o una mossa politically correct. È buon senso. La ripresa di questo Paese, come ripetono tutti da anni (a parole) è strettamente legata alla necessità  di consentire alle donne di essere pienamente competitive nella loro potenzialità  di lavoro, di intelligenza, di creatività . È un peso economico e non solo culturale, essere ultimi nell’Europa a 27 per partecipazione femminile al mondo del lavoro. Tante chiacchiere, annunci e family day, ma come denuncia da anni Famiglia Cristiana non c’è governo di destra o di sinistra che abbia messo a punto progetti decenti. Dagli asili nido alla possibilità  di scaricare dalla dichiarazione dei redditi come in Francia la metà  dello stipendio alla collaboratrice domestica, cosa che tra parentesi farebbe emergere molto lavoro nero. Che sia finalmente la volta buona che questi temi essenziali saranno affrontati?
Ancora più clamorosa, per certi versi, è l’irruzione di ragazzi e ragazze. Di giovani che fino a ieri erano del tutto esclusi dalla possibilità  di dire la loro, di portare le loro idee, di fornire le loro soluzioni. Conosciamo l’obiezione: ci son vecchi con le rughe ma con la mente fresca di un ventenne e ci sono giovani che a trent’anni sembrano averne 80. Ma certo. Ovvio. Ma che vuol dire? Resta il fatto che, come sottolinea giustamente il presidente della Coldiretti Sergio Marini, «l’Italia ha la classe dirigente più vecchia d’Europa con una età  media di 59 anni, con punte di 67 anni per i banchieri, di 63 per i professori universitari e di 61 per i dirigenti delle partecipate statali». E non tutti, come ci dice la realtà  dei fatti, sono fuoriclasse. O no?
Siamo un paese dove solo 9 su circa 18mila docenti universitari hanno meno di 35 anni, dove vari direttori del Cnr sono arrivati a fare ricorso contro le regole di un concorso che prevedeva per i partecipanti l’età  massima di 67 anni (sessantasette!), dove Raffaele Lombardo si è spinto a dare una consulenza per lo sviluppo economico e le politiche industriali a Domenico La Cavera quando aveva 94 anni. E potremmo andare avanti all’infinito…
Una tabella dello studio «Il mercato del lavoro dei politici», di Merlo, Galasso, Landi e Mattozzi mostrava tre anni fa i percorsi paralleli nostri e dei tedeschi. Dove si notava come i deputati e senatori italiani che nella prima legislatura repubblicana avevano mediamente meno di 46 anni, erano inesorabilmente invecchiati insieme con la prima Repubblica arrivando a 49. Lo sfondamento nel ’94 di Silvio Berlusconi e della Lega Nord, che inizialmente puntarono davvero sui giovani più di altri, fece precipitare questa età  media a 47. Ma fu solo una svolta provvisoria. Da allora, mentre in Germania l’anzianità  dei parlamentari tedeschi si stabilizzava cominciando via via a scendere, quella dei nostri ha continuato a salire, salire, salire. Fino a 54 anni.
Fino, appunto, al cataclisma di lunedì. Basti vedere le foto dei neoeletti: è cambiato il mondo. L’età  media dei nuovi parlamentari si è abbassata di colpo a 48. Per l’esattezza 53 al Senato, 45 alla Camera. Scoprire che i grillini eletti a Montecitorio hanno mediamente 33 anni (17 meno dei berlusconiani, 22 meno dei montiani e addirittura 25 meno dei casiniani) mette i brividi? Sicuramente. Anzi, diamo per scontato che alcuni di questi ragazzi siano immaturi. Che altri siano scarsi. Che altri ancora, trascinati in Parlamento dall’ondata come fossero sul surf, possano tradire le speranze perfino del loro guru genovese.
Una cosa comunque è certa: sul linguaggio, sulla rigidità  inamidata di certi riti del palazzo, sulla illeggibilità  delle norme sempre più astruse e su tante altre cose, quei ragazzi, insieme coi giovani portati dentro il palazzo, finalmente, anche da altri partiti, hanno la possibilità  di marcare una svolta fino a ieri impensabile. E se è vero che i malati parlano sempre di malattie e i marinai di mare e i vecchi di vecchiaia, chissà  che finalmente in Parlamento si parli di giovani.


Related Articles

L’arena televisiva come Sanremo

Loading

  Ieri mattina sembrava il day after dei vecchi Festival di Sanremo, quando Claudio Villa sfidava Toni Dallara sulle petunie calpestate dalla folla all’ingresso del Teatro Ariston. Come allora, terminata la gara più sgangherata del mondo, non duello ma duetto, gli italiani, e soprattutto quelli – smarriti – di sinistra, si sono messi a dire che «Silvio Berlusconi ha vinto» e a spiegare perché «Michele Santoro ha perso».

Pravatà: “Soldi e consulenze così il sistema Mose comprava i politici”

Loading

Parla Pravatà, l’ex vicedirettore del Consorzio “Il mio memoriale contro dirigenti ed ex ministri”

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment