La fiera delle promesse mette a nudo una deriva demagogica

by Sergio Segio | 8 Febbraio 2013 7:21

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E finisce per rendere ogni parola mirata ad attrarre consensi a buon mercato un’arma a doppio taglio, che magari illude ma subito dopo induce a riflettere e a diffidare. Ed è significativo che a dare voce a questa perplessità  di fondo sia il presidente della Cei. I vescovi, e non i vertici dei partiti, che tendono a sottolineare e a ridicolizzare le sparate avversarie ma poi rischiano di imitarle, seppure in formato ridotto.
Ieri è stato il cardinale Angelo Bagnasco a richiamare tutti ad un senso di responsabilità  e a una misura che si sono rapidamente persi per strada; e che, nonostante gli sforzi, difficilmente saranno recuperati fino in fondo nelle due settimane che mancano alle elezioni politiche. «Gli italiani», ha detto il capo della Cei, «hanno bisogno della verità  delle cose, senza sconti, senza tragedie, ma anche senza illusioni». E per essere più chiaro ha ammonito: «La gente non si fa più abbindolare da niente e da nessuno». Insomma, è la fine delle rendite di posizione di un sistema politico, di alleanze e di leader che il vecchio sistema elettorale tende a far sopravvivere; ma che appaiono invece sempre più in via di superamento.
D’altronde, il modo in cui si affrontano non solo gli schieramenti, ma gli stessi alleati, ricorda una competizione fra singoli partiti: un comportamento da sistema proporzionale più che da maggioritario. E su questo sfondo si estremizza la tentazione di additare l’impossibile pur di smuovere un elettorato sfibrato e disilluso. Il paradosso è che nella foga, questo assillo di parlare in dettaglio di obiettivi virtuali viene attaccato dagli avversari e contraddetto dagli stessi alleati. Così, Silvio Berlusconi fa seguire a quella sull’abolizione dell’Imu e al condono fiscale la promessa di quattro milioni di posti di lavoro, mentre la disoccupazione continua a decollare: tranne poi correggersi precisando che la sua è «un’ipotesi».
E questo dopo che la Lega e il suo ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, hanno già  bocciato le sue precedenti ricette come improponibile. Nel Pd i responsabile economico Stefano Fassina minaccia un ritorno alle urne, se l’esito del voto del 24 e 25 febbraio non darà  maggioranze parlamentari stabili. E aggiunge che prima però si cambierà  la legge elettorale: impegno irritante, dopo che per anni i partiti hanno ignorato i richiami ripetuti del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, a fare la riforma. Non bastasse, quasi in tempo reale Pier Luigi Bersani avverte che «un Paese serio non può continuare a inseguire le elezioni», smentendo Fassina. E propone un piano di emissione di titoli con i quali pagare i debiti della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese private che hanno eseguito dei lavori: 10 miliardi di euro all’anno per cinque anni.
Lo stesso Mario Monti si lascia scappare che una volta al governo farebbe votare subito una legge per dimezzare il numero dei parlamentari: altro obiettivo sempre evocato e poi mancato dai partiti, che ne hanno attribuito la colpa agli avversari come per la mancata riforma elettorale. In più, il premier ipotizza una riduzione dell’Irpef per 15 miliardi di euro. Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc, ritiene che «una delle cose più scandalose di questa campagna elettorale è la fiera delle promesse». E da sinistra si interpreta il monito di Bagnasco come una critica rivolta innanzi tutto alle sparate berlusconiane. Sarebbe confortante, ma anche un po’ troppo consolatorio per gli altri. L’impressione è che l’appello del presidente della Cei sia rivolto in generale ai partiti: anche se non sembra che ci sia una gran voglia di starlo ad ascoltare. Promettere è facile e, per ora, «popolare».

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