La carica delle élite femminili ma l’agenda donna non scalda

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Nei Paesi scandinavi grazie a un welfare inclusivo molte donne sono state elette in Parlamento. In Italia finirà  che seguiremo il percorso inverso: circa 285 donne saranno elette in Parlamento il prossimo 25 febbraio e dalla loro spinta forse potrà  nascere un welfare più inclusivo. Sa di paradosso ma le cose stanno proprio così e non vale la pena fare gli schizzinosi. Le vie della modernità  non sono rettilinee. Il dato certo è che siamo alla vigilia di una novità  se non storica, quasi: tutte le stime sugli eletti ci dicono che avremo un Parlamento rosa almeno per il 30%. Nella passata legislatura eravamo rimasti a quota 193, il 20,33%. Il Pd, il partito che più ha aperto le liste al femminile, sostiene che il 40% delle candidate è in posizione eleggibile e quindi dovrebbe portare in Parlamento almeno 154 donne. Grillo ne dovrebbe eleggere 40, il Pdl attorno a quota 38, Scelta civica 17, Vendola 24, la Lega 6, Ingroia 4 e l’Udc 2. Ma — e la domanda è politicamente scorretta — la nascita di una consistente élite politica rosa corrisponde alla crescita di un vero movimento della società  nel segno dell’inclusione? Oppure siamo davanti a un caso (raro) in cui la circolazione delle élite è più fluida della capacità  di mettere in agenda i temi legati alla condizione dei rappresentati? E ancora: l’aumento delle parlamentari corrisponde anche a un significativo slittamento dell’opinione politica delle donne?
Cominciamo da qui. Secondo Renato Mannheimer non ci sono «differenze pazzesche» nell’orientamento di voto delle donne tra le politiche del 2008 e oggi e ciò nonostante l’ultima fase della legislatura si sia caratterizzata per le vicende legate all’esercizio del bunga bunga e Silvio Berlusconi, considerato un monumento vivente del maschilismo e della sottomissione femminile, alla fine si sia ripresentato ai nastri di partenza. Secondo Alessandra Ghisleri, direttrice di Euromedia Research, non siamo in presenza di una vera diaspora dell’elettorato femminile di centrodestra, il grosso delle elettrici sopra i 50 anni resta sostanzialmente con il Cavaliere mentre le donne dai 44 anni in giù si considerano in libera uscita. Sono indecise il doppio degli uomini loro coetanei e «si guardano attorno». Quindi se allontanamento c’è stato è di tipo selettivo, con il fattore età  a fare da discriminante. La mossa con la quale il Cavaliere si è accasato con Francesca Pascale, con una tempistica ricalcata sul calendario dei comizi, è considerato un fattore ininfluente mentre non va dimenticato che storicamente il voto femminile in Italia si è collocato sempre più a destra rispetto a quello maschile. Tanto che la leggenda narra come nella sinistra italiana subito dopo il fatidico 18 aprile 1948 più di qualcuno avesse maledetto l’accordo De Gasperi-Togliatti per concedere il voto alle donne. «Lo spostamento del voto femminile da destra verso sinistra nei maggiori Paesi europei si verifica attorno agli anni 90, da noi solo a partire dal 2006 e si presenta come una secolarizzazione visto che dietro aveva la lunghissima stagione dell’egemonia della Dc e dei parroci come opinion maker» commenta Elisabetta Gualmini, prima donna a dirigere il prestigioso Istituto Cattaneo di Bologna.
Mannheimer non registra nemmeno la tendenza femminile a votare le donne o comunque a scegliere una lista in virtù di una determinata presenza femminile, e anche Ghisleri conferma che non esiste una corsia preferenziale di genere. La maggior parte delle intervistate dichiara di votare «il meglio», se poi coincide con una donna tanto di guadagnato ma il 68,3% delle donne è comunque convinto che una politica rosa migliora il rapporto con la gente perché apporta trasparenza e concretezza. Il Porcellum ovviamente non è un test significativo perché non è prevista la preferenza mentre qualche cosa in più capiremo grazie alle Regionali, dove si può scrivere un nome sulla scheda e la legge obbliga i partiti a candidare il 50% di donne. Francesca Panzarin, candidata in Lombardia con la coalizione Ambrosoli e animatrice del sito womenomics.it, ha lanciato una petizione «a pari merito vota una donna», slogan che risente del dibattito sulle quote rosa (molto vivace a Milano) e della contrapposizione tra merito e genere che ha lasciato più di qualche amarezza tra le donne più impegnate. «Penso sempre che alla fine la differenza la facciano le persone anche se elette con sistemi cooptativi», dice Panzarin.
Il dibattito sulle quote rosa e la legge Mosca-Golfo, che ha avuto un primo effetto di portare la presenza delle donne nei consigli di amministrazione dal 6 al 10%, sono stati sicuramente una prova generale della formazione di élite femminili. «La donna è tornata a parlare di se stessa — osserva Ghisleri — e le ricadute non hanno interessato solo i cda, lo si può tranquillamente vedere anche nella composizione dei panel di qualsiasi talk show o convegno, almeno una donna ora c’è sempre». Le quote rosa hanno rappresentato una svolta «ma non siamo riuscite ancora a incidere sulla cultura sottostante» dice Alessandra Perrazzelli, manager bancaria e presidente dell’associazione Valore D, «servono ancora almeno 10 anni prima che si innesti un circolo virtuoso tra rinnovamento della rappresentanza e vero cambiamento». L’Italia profonda resta ancora prigioniera del familismo e di una «visione ornamentale della donna». Gli standard europei «sono molto lontani». Perrazzelli rintraccia però una totale discontinuità  rispetto a questo schema nelle giovani che escono adesso dall’università  e che hanno una carica diversa, «sono portate ad azzerare le differenze sessuali ma leggono molto meno di noi e soprattutto non trovano davanti a sé altro che offerte di precariato».
Lo scollamento tra riequilibrio dei seggi in Parlamento e indicatori della differenza di genere, il gender gap, è sostenuto anche da Gualmini. «Basta pensare al tasso di occupazione o alla disparità  nei salari. Le donne parlamentari dovranno impegnarsi a rimettere in moto dossier che sono rimasti fermi». E qui torniamo al nesso tra modernizzazione del welfare e inclusione femminile. Sostiene Maurizio Ferrera, autore del libro Fattore D, «quando si arriva al dunque inclusione vuol dire più soldi per l’assistenza e per le politiche di conciliazione e in Italia non c’è stato nessuno spostamento verso quelle voci di spesa che interessano le donne». Lo stesso tesoretto che doveva scaturire dalla maggiorazione dell’età  di pensionamento delle donne e che avrebbe dovuto alimentare le politiche di welfare «alla fine è stato scippato».
L’abbandono dei dossier è dovuto, sempre secondo Ferrera, alla bassa capacità  delle donne di aggregare/premere e dell’associazionismo di avere costanza nella mobilitazione. L’articolazione di quello che in gergo si chiama «femminismo di Stato» ovvero il ministero delle Pari opportunità  più la presenza di una consigliera di parità  per ogni livello di governo «è stato un enorme fallimento» e non una leva capace di invertire l’ordine di priorità  dell’agenda politica. «Anche quando ai vertici di Confindustria e Cgil ci sono state rispettivamente Emma Marcegaglia e Susanna Camusso e al ministero del Welfare un’altra donna, Elsa Fornero, le tre non sono riuscite a fare squadra neanche un giorno». D’altro canto se è vero che nessun uomo politico direbbe mai che «il fattore D non esiste» è altrettanto evidente che la rivoluzione di genere mette in discussione un doppio ordine di privilegi: la presenza maggioritaria tra le élite e le pratiche/riti su cui si basa la stragrande maggioranza delle coppie/famiglie. «Gli altri Paesi tutto sommato ce l’hanno fatta, da noi gli uomini di fronte al doppio rischio di perdere le poltrone e rifare i letti hanno di fatto esercitato un potere di veto. E se altrove i movimenti femminili sono riusciti a smascherare il volto occulto del potere maschile, da noi non è avvenuto», osserva Ferrera. Forse anche perché non si è presentata sulla scena politica una donna con vere capacità  di leadership. «Ci sarebbe voluta una Renzi, capace di collegare i mutamenti dall’alto con significativi spostamenti dell’opinione pubblica». O avrebbe dovuto confermare le attese Debora Serracchiani che al suo debutto alle ultime europee — conferma Ghisleri — aveva avuto un impatto eccezionale. In mancanza di tutto ciò resta comunque l’onda rosa che si riverserà  a fine febbraio su Montecitorio e Palazzo Madama. «Può essere sicuramente un grimaldello per cambiare le cose e riscrivere il welfare italiano», commenta Gualmini. Ma non si corre il rischio che senza avere un retroterra sociale vivo si finisca per creare una sorta di notabilato rosa, capace di saltare dai cda alle aule parlamentari come niente fosse? «Può darsi che in qualche occasione ce la cantiamo e ce la suoniamo da sole e rischiamo di essere autoreferenziali — risponde la manager Perrazzelli — ma la causa è sempre una: parlare e convincere gli uomini è difficilissimo».
Dario Di Vico


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