by Sergio Segio | 14 Febbraio 2013 8:22
NATANZ (IRAN). Un rombo sordo arriva dalla strada. Convogli militari attraversano la periferia est della città , invisibili nella sera senza luna. I raggi intermittenti dei fari delle torri di controllo entrano dalla finestra, si riflettono sul soffitto del ristorante. Un cameriere chiude le tende. Natanz, con i suoi 12mila abitanti, si trova ai piedi di Kuh-e-Karkas, la montagna degli avvoltoi; rinomata per il clima, i frutteti ricchi dell’acqua che scende dal monte, e un antico monastero sufi. Molte famiglie di Teheran hanno qui case per il fine settimana. Ci si arriva in un paio d’ore, scendendo verso sud in direzione di Isfahan attraverso il deserto. “Paradiso di montagna” era l’appellativo con cui Natanz era conosciuta. Ma oggi è diventato un altro: città atomica. Quando i capi di governo del mondo discutono di un possibile attacco militare contro il programma atomico iraniano intendono soprattutto Natanz. È Natanz il cuore del programma.
Di fronte alla città , a due passi dall’autostrada, circondato da rotoli di filo spinato e protetto da torri di controllo e fari girevoli, c’è l’impianto per l’arricchimento dell’uranio con il suo Fep, che produce uranio arricchito al 5%, e il suo Pfep, un impianto pilota che arricchisce al 20% (quest’ultimo, sostiene il governo iraniano, servirà per il reattore sperimentale di Teheran utilizzato per la medicina nucleare).
Distruggere Natanz non sarebbe facile. L’impianto copre un’area di una ventina di chilometri quadri ed è costruito otto metri sotto terra, circondato da un muro di cemento armato spesso quasi tremetrieprotettoall’internoda un altro muro. Nel 2008 una foto fece il giro del mondo — quella di Ahmadinejad in camice bianco che attraversa il reparto delle centrifughe (di vecchio modello), seguito dal ministro della Difesa (un po’ incongruo in un impianto per usi civili) — e fornì involontariamente agli occidentali qualche chiave in più sull’impianto.
Da fuori si intravedono solo i cannoni antiaerei messi a difesa dell’impianto. «Se arrivano gli aerei israeliani ne faranno fuori parecchi » dice l’oste in un ristorante cittadino. La maggioranza dei clienti del ristorante pensa che il governo dovrebbe trattare e non mettere a rischio il paese; alcuni invece sono stufi che l’Occidente spadroneggi e rifiuti di riconoscere un diritto dell’Iran. Quando nel 2004 le centrifughe di Natanz entrarono in funzione, ci si preoccupò soprattutto perché sarebbero venuti meno turisti, racconta l’oste. Così infatti è stato. Non solo i turisti stranieri, che ormai sono scomparsi dall’Iran (un paese per patrimonio culturale e artistico fra i primi nel mondo, al 138esimo posto per numero di visitatori). Anche i teheranesi hanno smesso di venire. Ma poi l’impianto nucleare ha avuto bisogno di forza lavoro, i negozi hanno decuplicato gli affari, il prezzo di case e terreni è salito alle stelle. «Ormai il destino di Natanz è legato all’impianto nucleare» dice uno dei clienti. Se il regime voglia costruire davvero una bomba o solo produrre combustibile per l’energia elettrica lui non lo sa, ma anche nel primo caso non avrebbe tutti i torti: «La bomba ce l’ha Israele e perfino il Pakistan che per anni ha ospitato Bin Laden. Ma, incredibilmente, il mondo ha paura solo dell’Iran!».
Le trattative sul dossier nucleare riprenderanno il 25 febbraio in Kazakistan. Oggi gli ispettori dell’Aiea sono a Natanz per la terza volta in tre mesi, dopo che a lungo le due parti si erano accusate a vicenda di bloccare il negoziato. L’inviato iraniano Ali Asghar Soltanieh dice di aver raggiunto un accordo con l’Agenzia su «alcuni punti» ma l’intesa resta sempre lontana. La verità è che nessuno vuol rinunciare alle proprie precondizioni. Per l’Occidente, l’Iran dovrebbe fare prima di tutto quello che i diplomatici chiamano “stop, ship, shut”: bloccare l’arricchimento al 20 % dell’uranio, spedire all’estero quello che hanno già arricchito e chiudere un grosso impianto. Per l’Iran, l’Occidente dovrebbe prima di tutto ridurre sostanzialmente le sanzioni (non offrendo solo “noccioline contro diamanti”, come gli iraniani chiamano l’ultima offerta occidentale) e riconoscere il diritto dell’Iran ad arricchire l’uranio. Nel 2010 un compromesso sembrava raggiunto, ma Ahmadinejad fu immediatamente sconfessato a Teheran: la politica iraniana è così polarizzata che i rivali del presidente preferirono bloccare un’intesa di cui Ahmadinejad avrebbe avuto il merito.
«L’Iran vuole che l’agenda nel nuovo round di colloqui menzioni esplicitamente le sanzioni e il diritto ad arricchire l’uranio, dopo di che è disposto a trattare su tutto » mi ha detto a Teheran il portavoce del governo Ramin Mehmanparast. Il ministero degli Esteri ha fatto sapere di essere disposto a firmare “un accordo complessivo” in questo senso. Essere singolarizzati, essere privati di un diritto che hanno tutti i firmatari del Tnp è inaccettabile per la Repubblica Islamica. Nessuno dei suoi dirigenti, nemmeno i riformatori dell’Onda Verde se avessero voce in capitolo, potrebbe assumersi politicamente questo vulnus dell’orgoglio nazionale. Il programma nucleare è considerato lo strumento per entrare nella modernità . Ma trasporta con sé tutti i pregiudizi e le paure di un paese che non si è mai scrollato di dosso il peso di un passato in cui le grandi potenze facevano il bello e il cattivo tempo. Gli iraniani hanno distillato questo passato in due concetti: la “perfidia” occidentale e le virtù cardinali dell’autosufficienza e del rispetto di sé.
Alla fine del 2009, gli scienziati che lavoravano a Natanz si accorsero che le centrifughe avevano cominciato a girare fuori controllo e ad autodistruggersi. Sembra che nel mezzo della notte alcuni computer cominciassero a emettere a tutto volume le note di Thunderstruck, la canzone degli AC/DC, un gruppo rock degli anni 90. È seguita una vera e propria guerra fatta di virus, di attentati a scienziati, di esplosioni misteriose. L’Iran smentisce categoricamente di volere la bomba, che definisce «un imperdonabile peccato contro Dio» (così la Guida suprema Khamenei l’anno scorso al summit dei Paesi non allineati). Ma manda continuamente segnali
nella direzione opposta: in questi giorni ha attivato a Natanz centrifughe Ir-2 di nuova generazione, che permettono di arricchire l’uranio a una velocità due volte e mezzo superiore ai vecchi modelli. I sospetti cominciarono qui: nel 2002 il Mek, un gruppo di opposizione molto controverso, denunciò cheTeheranstavasegretamente costruendo due impianti nucleari a Natanz dove il governo iraniano affermava di voler invece dissodare il deserto per renderlo coltivabile. Nel 2003 tre ministri degli Esteri europei volarono a Teheran e riuscirono a ottenere una pausa nel programma di arricchimento. Ma gli Stati Uniti allora erano interessati solo a un cambio di regime. Rovesciare la Repubblica islamica, con cui non avevano relazioni diplomatiche da dopo la rivoluzione, era la loro priorità : «Gli Usa non faranno mai nulla che possa accrescere la legittimità degli ayatollah» disse Condoleezza Rice agli europei. Il negoziato si bloccò.
Un compromesso è ancora possibile — oggi lo pensa anche l’Amministrazione americana. Per esempio un primo passo potrebbe essere convertire l’uranio arricchito al 20% in piastre metalliche. Anche la Cia non ha trovato prove che l’Iran voglia costruire l’arma nucleare, solo una “ambiguità strategica”. Come se gli iraniani dicessero: potremmo, se volessimo; e dipende da voi se un giorno vorremo. Il regime si vede impegnato in una lotta per la sopravvivenza. Se possibile senza bomba. Se indispensabile con. Il 2013 sarà l’anno decisivo, dicono tutti a Natanz.
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