Il tabù violato per la guerra al terrorismo

by Sergio Segio | 7 Febbraio 2013 8:12

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Una pratica genera effetti – positivi o negativi – anche se è nascosta perché trasgressiva; ma produce conseguenze incomparabilmente più rilevanti se viene legittimata e codificata. Sta in questo passaggio l’importanza dei tabù, che (si pensi all’incesto) non hanno la funzione di impedire determinati comportamenti, ma di ostacolarli stigmatizzandoli. Nei confronti di comportamenti socialmente censurati i tabù consolidano sentimenti morali di avversione o di ripugnanza radicati al punto di divenire inconsci. E così contribuiscono efficacemente a strutturare il codice morale collettivo e a difendere la comunità  da condotte ritenute distruttive. Questo significa che, per contro, una condotta de-tabuizzata non soltanto non incontra ostacoli morali, ma tende per ciò stesso a essere replicata. L’idea che sia lecita o giusta ne favorisce l’adozione, il suo affermarsi come costume.
Sullo sfondo di questa dialettica tra censura e legittimazione si svolge la vicenda della tortura ricostruita e discussa da un libro importante e (purtroppo) quanto mai attuale (Legalizzare la tortura? Ascesa e declino dello Stato di diritto, Bologna, il Mulino, pp. 205, euro 19) scritto da Massimo La Torre e Marina Lalatta Costerbosa, filosofi del diritto da anni impegnati su questo delicato e impervio terreno.
Pratiche nascoste al pubblico
Il libro mostra come fino agli anni Ottanta del Novecento abbia retto, anche nel diritto internazionale, la posizione affermata dall’illuminismo giuridico e ribadita, in ambito liberale, dalla dottrina e pratica dello Stato di diritto. Sulla tortura gravava fino a una trentina di anni fa una severa condanna morale e un veto giuridico generalizzato ne decretava la messa al bando dagli ordinamenti positivi degli Stati. Ciò non significa, ovviamente, che la tortura non venisse praticata da forze di polizia, corpi speciali e servizi segreti degli stessi Stati democratici. Si pensi all’Algeria francese negli anni Cinquanta, dove il ricorso alla tortura al fine di debellare la resistenza del Fronte di Liberazione Nazionale fu massiccio e per dir così «strategico». Ma anche se vi si faceva ricorso, si evitava di rivendicarne la moralità  e di sostenerne la legalità . Si torturava di nascosto, in qualche modo vergognandosene. E questo – proprio perché la tortura era un tabù per il diritto – imponeva limiti di fatto, ne scoraggiava l’impiego fuori da frangenti estremi, e anche in tali evenienze ne determinava un uso per dir così accorto e circospetto.
La musica cambia trent’anni fa, allorché si verifica, in forza di una duplice cesura, quello che Lalatta e La Torre considerano un vero e proprio «cambio di paradigma», per effetto del quale la violenza irrompe nel tessuto stesso del diritto, che pure se ne vorrebbe radicale antitesi.
Il primo atto coincide con l’operato della Commissione Landau, incaricata dal governo israeliano di elaborare un parere sulla legittimità  delle pratiche di interrogatorio alle quali polizia e servizi segreti di Israele sottopongono i palestinesi sospettati di attività  terroristiche. La Commissione fornisce un responso per molti versi sconvolgente. Con l’argomento classico della «bomba ad orologeria», impiegato già  nel Settecento da Jeremy Bentham, sostiene la tesi secondo la quale anche una pratica brutale come la tortura può essere giustificata se mira a disinnescare una minaccia incombente su molte vite innocenti. È – scrivono Lalatta e La Torre – come se qualcuno avesse scoperchiato il mitico vaso di Pandora.
Difatti lungo questo solco si è poi potuta agevolmente compiere una seconda cesura, decisiva sul terreno del dibattito pubblico e delle ricadute politiche in ambito internazionale. La discussione che si apre all’indomani dell’11 settembre determina una svolta drammatica nella discussione in filosofia politica e del diritto. Anche in questo caso si badi: la questione non verte tanto sull’intensità  delle pratiche, quanto sull’«ordine del discorso» e sulle conseguenze che esso genera nella teoria e nella pratica giuridica. Come gli autori documentano, l’attacco portato dai fautori della legalizzazione della tortura compie un salto di qualità  rispetto alle tesi sostenute negli anni Novanta da Niklas Luhmann (memorabile una sua conferenza sul relativismo delle norme e sulla conseguente possibile legittimazione della tortura) e, sulla sua scia, da Winfried Brugger. Ne è paradossalmente responsabile, sul terreno teorico, un avvocato (Alan Dershowitz, già  distintosi sul tema ai tempi di Landau e tuttora molto attivo), mentre nuove inquietanti argomentazioni vengono prodotte, sul terreno della giurisdizione, nel corso dei processi delle Corti federali degli Stati Uniti, ben disposte ad assumere gli argomenti elaborati dai consulenti della Casa Bianca sullo sfondo delle guerre sante di George Bush jr.
Un brutale strumento politico
Con quali conseguenze? Naturalmente il quadro – che il libro rappresenta con ammirevole precisione – è complicato, tutt’altro che univoco. Per stare all’essenziale, per un verso si verifica una vera e propria «rivoluzione nel diritto», il quale viene perdendo la sua mitezza per accentuare il profilo coercitivo, sino a identificarsi con la violenza. Pesa qui in misura determinante il nesso con la politica, vera ratio del ricorso alla tortura. La stessa esibizione del massimo arbitrio si rivela talvolta funzionale alla strategia di affermazione del potere. E proprio il fatto che la tortura sia uno strumento politico complica enormemente la questione, revocando in dubbio la tesi della sua inutilità , resa famosissima tra gli altri da Cesare Beccaria. Per l’altro verso, tuttavia, nonostante la dovizia di sofisticate argomentazioni a favore della tortura, il tabù resiste, mostrando come non sia facile sradicare resistenze consolidatesi nel tempo.
Ciò che più sorprende, nella serrata analisi di Lalatta e La Torre, è la ricorrenza degli argomenti a sostegno della tortura. Si è detto della benthamiana «bomba a orologeria»; lo stesso vale per la tesi della «mitezza», alla quale rispose già  conclusivamente un confessore di streghe (il gesuita Friedrich von Spee) con l’osservare come l’idea dell’eccesso inerisca per forza di cose alla tortura, dovendo la vittima, pena l’inefficacia dei supplizi, avvertirne l’orrore e l’inaudita ferocia. Ripetitività  è di per sé indice di povertà  e fragilità  di argomenti. Resta che tanta «scienza giuridica» si affatica non senza successo in favore della «rilegalizzazione del tormento». Il libro sostiene per parte sua, in modo brillante e persuasivo, non solo l’irricevibilità  morale della tortura, ma anche la sua natura paradossale, come strumento giudiziario che attesta, nel massimo della violenza, la debolezza e la fragilità  di un potere costretto a mascherarsi dietro il paravento del diritto. E tuttavia la partita non si può solo per questo dire chiusa. Al contrario, il fatto stesso che in Italia l’introduzione del reato di tortura incontri tuttora insormontati ostacoli mostra come essa sia aperta e quanto sia rischiosa. Tale da raccomandare che libri come questo vengano accuratamente letti e meditati.

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