IL QUADERNO DI GRAMSCI? È SOLO VOGLIA DI SCOOP

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«Il taccuino segreto di Gramsci? Tutta questa faccenda mi lascia sconcertato». Dal suo dipartimento vicino a Chicago, dove insegna Letteratura comparata, Joseph Buttigieg interviene nella polemica sul pensatore sardo. Curatore dell’edizione critica dei Quaderni per la Columbia University Press, lo studioso americano è presidente dell’International Gramsci Society, dove confluiscono gli specialisti sparsi in tutto il mondo. «Ho appena letto L’enigma del Quaderno, il nuovo libro del linguista Franco Lo Piparo. Ma se dovessimo assecondare questa nuova ricostruzione, ci troveremmo dinanzi a un caso di schizofrenia».
Perché, professor Buttigieg?
«Secondo Lo Piparo, il taccuino scomparso sarebbe un “quaderno delle cliniche”, scritto negli anni dei ricoveri tra Formia e Roma. E conterrebbe esplosive critiche al comunismo. Lo studioso trascura un dettaglio, che non è irrilevante: fu a Formia che Gramsci pose mano alle note dei suoi Quaderni.
Così da una parte va completando la sua opera più importante, senza peraltro correggere d’una virgola una complessa costruzione concettuale che per quanto eterodossa è sempre dentro l’orizzonte comunista; e nello stesso periodo — o immediatamente dopo — comincia un nuovo quadernino, che rinnega radicalmente l’opera precedente. Non sarebbe stato più logico intervenire sulle pagine già  scritte, apportandovi modifiche e aggiunte?».
E tutte quelle discrepanze nella catalogazione dei Quaderni?
Salti nella numerazione, il balletto sulla cifra dei taccuini…
«Ora, dal mio ufficio dell’University of Notre Dame, mi è difficile intervenire sulle incongruenze filologiche. Posso soltanto dirle che Valentino Gerratana, curatore nel 1975 dell’edizione critica, diede una descrizione plausibile della numerazione. E in un secondo momento Francioni e Cospito ne hanno fornito un’interpretazione convincente».
Ma ora Lo Piparo li contesta.
«Lo Piparo ha fatto un lavoro ineccepibile sulle carte. Il problema nasce là  dove comincia la sua interpretazione, che appare del tutto romanzesca. Un salto di numerazione non significa necessariamente l’esistenza di un quaderno mancante. E l’esistenza di un quaderno mancante non significa necessariamente che Gramsci ripudiò il comunismo ».
Ma quel che si legge sotto traccia — non solo nei libri di Lo Piparo, ma anche in quelli di Luciano Canfora e di Carmine Donzelli — è che l’Istituto Gramsci avrebbe avuto interesse a non fare luce sul taccuino segreto perché materiale scomodo per il Pci.
«In tanti anni di frequentazione dell’Istituto non ho mai avuto sentore che mi si nascondesse qualcosa. La cosa assurda è che Lo Piparo abbia pubblicato il suo saggio senza aspettare l’esito dell’inchiesta promossa dalla Fondazione Gramsci. Mi sarebbe apparso più serio attendere i risultati. Peccato che Giuseppe Vacca, presidente del Gramsci, non abbia richiesto un impegno preciso in questo senso».
Secondo Lo Piparo, sarebbe stato Piero Sraffa a sottrarre tre quaderni a Tania Schucht. E Tania si sarebbe vendicata appiccicando su altri tre quaderni le etichette dei fogli rubati.
«Sì, ho letto di questo astutissimo stratagemma.
Ma sarebbe stato molto più semplice denunciare l’accaduto una volta tornata a Mosca. Possibile che non ve ne sia traccia né nelle carte né nella memoria della famiglia Schucht? Anche qui mi sembra che Lo Piparo proceda sulla base di congetture prive di riscontro. Due parole, poi, su Sraffa: fu Gramsci a chiedere il suo aiuto, non Sraffa ad offrirsi. E senza il suo nutrimento intellettuale, Gramsci probabilmente non avrebbe scritto i Quaderni.
E questo sarebbe “l’agente coperto” del Comintern, il “ladro” dei taccuini? ».
Ma lei che idea si è fatto di tutta questa polemica?
«Si vuole separare l’autore dei Quaderni dal marxismo e dalla tradizione comunista. Anche in un precedente saggio, Lo Piparo riconduceva il concetto di egemonia agli studi di Gramsci sulla lingua: un contributo anche serio, ma che finiva per liquidare la sua formazione marxista. E ora siamo alla fine di questo circolo ermeneutico».
Però anche tra i sostenitori di Lo Piparo c’è chi non condivide questa lettura “liberale”. A parte questo, mi sembra di cogliere un giudizio severo sul rapporto tra la cultura italiana e Gramsci.
«Negli ultimi decenni sono usciti anche libri importanti, ma nel dibattito culturale Gramsci è rimasto sullo sfondo, se non per qualche improbabile rivelazione (Gramsci suicida, Gramsci convertito…). Fino all’improvvisa effervescenza dell’ultimo periodo, fondato per lo più sul sensazionalismo. Altrove l’autore dei Quaderni continua a essere un pensatore vivo, capace di parlare al presente: l’altro giorno l’inglese Michael Gove, ministro conservatore dell’Istruzione, ha indicato Gramsci tra i suoi modelli ispiratori».
Che cosa la irrita di più della nuova polemica?
«L’impressione è che si usi un cadavere per fare degli scoop. Il successo di questo genere di pubblicazioni — mi riferisco a Lo Piparo ma anche agli altri che procedono per supposizioni non suffragate da riscontri — è dovuto a una circostanza precisa: non possono essere confermate né smentite. Io non posso dire con certezza: Gramsci non ha mai scritto il trentesimo quaderno. E dunque questi autori avranno sempre ragione. Se ci pensa, noi stiamo parlando da mezz’ora di una cosa che non esiste. Hanno vinto loro».


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