Il pentito tira in ballo Mancino “Il papello era destinato a lui”
ROMA — Il pentito Giovanni Brusca dice di ricordare con precisione il momento in cui Totò Riina, il capo dei capi di Cosa nostra, gli fece il nome di Nicola Mancino, l’allora ministro degli Interni. «Mi confidò: “È Mancino il destinatario finale delle richieste che ho fatto con il papello. Ma ci hanno fatto sapere che le nostre richieste sono troppo esose”». L’ex boss della Cupola mafiosa, Giovanni Brusca, parla dietro un paravento, nell’aula bunker del carcere di Rebibbia. Davanti a lui, c’è il giudice Piergiorgio Morosini, che fra qualche giorno dovrà decidere sul rinvio a giudizio di 10 imputati eccellenti, fra boss e uomini delle istituzioni, per la trattativa che si sarebbe consumata fra le stragi Falcone e Borsellino. Anche gli imputati eccellenti sono in aula: Mancino, seduto accanto ai suoi avvocati; Riina è collegato in videoconferenza. Tutti ascoltano in silenzio Brusca mentre rievoca i terribili giorni del giugno ‘92.
«La prima volta — spiega il collaboratore — ero andato per discutere di un omicidio. Riina, il mio maestro d’arte, era contento.
Mi disse: “Si sono fatti sotto, vogliono sapere cosa vogliamo per fermare le stragi. E io gli ho consegnato un papello di richieste grande così”». Dopo qualche giorno, Brusca tornò al cospetto del suo capo. «Fu in quell’occasione — spiega— che Riina mi parlò di Mancino, dicendo che era il terminale delle nostre richieste».
Nel racconto di Brusca scorre l’inizio della strategia stragista: nel marzo ‘92, il delitto dell’eurodeputato Dc Salvo Lima, «per colpire politicamente Andreotti», colpevole di non aver evitato le condanne in Cassazione del maxiprocesso. Ad aprile, si sarebbero fatti avanti altri referenti po-litici: «Dell’Utri — dice Brusca — e la Lega con questo Bossi. Ma all’inizio Riina non si fidava di Dell’Utri, lo riteneva troppo vicino alla vecchia mafia di Bontate. Poi, invece — precisa il pentito — è tornato utile con Berlusconi».
Gli eventi di quei mesi scorrono veloci all’udienza preliminare per la trattativa. A maggio, dopo il delitto Falcone, Riina ordinò di uccidere l’allora ministro Calogero Mannino: «Poi, a giugno, mi dissero di fermarmi», spiega Brusca. Secondo i pm, quello stop sarebbe stato il primo frutto della trattativa, attivata da Mannino tramite i vertici del Ros.
Già nel 1997 Brusca aveva parlato delle confidenze di Riina su Mancino. Quelle dichiarazioni furono raccolte dai pm Luca Tescaroli e Nino Di Matteo, quest’ultimo oggi uno dei magistrati che conduce l’inchiesta sulla trattativa, assieme ai colleghi Del Bene, Sava e Tartaglia. Prima di Brusca, mai nessuno aveva parlato di un dialogo segreto fra Stato e mafia durante il ‘92. Ma all’epoca Brusca mise a verbale un solo incontro con Riina, e lo collocò dopo la strage Borsellino, avvenuta il 19 luglio. «Sono le contraddizioni di Brusca», insiste l’avvocato Basilio Milio, il difensore del generale dei carabinieri Mario Mori, che nell’estate delle stragi dialogava con l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, l’ambasciatore del vertice mafioso. L’ex ministro Mancino è categorico: «Non ho mai ricevuto alcuna richiesta da parte di chicchessia in ordine a un’eventuale alleggerimento del contrasto dello Stato, che fu senza quartiere».
Ma in aula Brusca difende la sua ricostruzione: «Già anni fa ho chiarito i miei ricordi, agganciandoli a due episodi. La prima volta, andai da Riina per l’omicidio del capomafia di Alcamo, Milazzo, avvenuto poi a luglio. Nel secondo incontro, discutemmo della necessità che anche i catanesi si muovessero. E a fine luglio, ci fu l’omicidio dell’ispettore Lizzio». Dunque, ecco il cuore dell’inchiesta, giugno 1992. Anche Mori nega di aver mai parlato con Vito Ciancimino prima della strage Borsellino. Nega soprattutto di avere mai ricevuto un “papello”. Ma contro Mori, la Procura porta anche il figlio di Vito Ciancimino, Massimo: ha detto che in casa sua c’era un gran movimento nel giugno ‘92, per l’arrivo del papello e per gli incontri con gli ufficiali del Ros.
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