Il pensiero delle resistenze

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L’Italia si è ormai guadagnata una posizione di rilievo nel panorama internazionale degli studi sul postcolonialismo, sia come oggetto di studio sia per il contributo che molti intellettuali italiani hanno apportato al dibattito teorico postcoloniale (basti segnalare, in questo senso, la recente uscita per la casa editrice Palgrave Macmillan di Postcolonial Italy. Challenging National Homogeneity, a cura di Cristina Lombardi-Diop e Caterina Romeo). Per quanto sia rimasta un’impostazione di frontiera, guardata con sospetto dall’interno del mainstream accademico, quella postcoloniale è del resto entrata a far parte della formazione di una nuova generazione di studiose e studiosi in ambito umanistico e nelle scienze sociali. Ne sono derivati effetti di rinnovamento (e di decentramento dello sguardo) che hanno investito numerose discipline, hanno messo in discussione i confini tra di esse e hanno più in generale interpellato radicalmente il pensiero critico – dal postoperaismo al femminismo, per fare soltanto due esempi. Grazie all’impegno di case editrici come Meltemi e ombre corte, i lavori di Dipesh Chakrabarty e Partha Chatterjee, Gayatri Spivak e Chandra Mohanty, nonché di molti altri protagonisti del dibattito postcoloniale, sono disponibili in italiano, circostanza che ha posto le basi per una ricezione relativamente ampia dei temi al centro di quel dibattito.
Genealogia critica
Miguel Mellino svolge da oltre dieci anni un ruolo di decisiva importanza all’interno dell’opera di traduzione (sia in senso letterale sia e soprattutto in senso metaforico) della teoria postcoloniale in Italia. Autore di quella che rimane una delle migliori introduzioni al tema La critica postcoloniale, Meltemi), ha curato edizioni di testi classici, come The Black Atlantic di Paul Gilroy (Meltemi), ha documentato il dibattito successivo alla pubblicazione nel 1978 di Orientalismo di Edward Said (Post-orientalismo, Meltemi), ha intessuto un fitto dialogo con uno dei «padri» dei cultural studies britannici, Stuart Hall (La cultura e il potere, Meltemi), e ha lavorato sulle diverse tradizioni dell’anti-colonialismo, in particolare su Aimé Césaire (di cui ha curato la nuova edizione del Discorso sul colonialismo, ombre corte) e su Frantz Fanon (di cui ha curato i due volumi degli Scritti politici, DeriveApprodi). Il nuovo libro di Mellino, da poco in libreria (Cittadinanze postcoloniali. Appartenenze, razza e razzismo in Europa e in Italia, Carocci, pp. 135, euro 15), consente dunque di riconsiderare complessivamente il suo percorso di ricerca e di evidenziare la grande originalità  del suo attraversamento del dibattito postcoloniale.
Dal centro ai margini
Le tappe del lavoro di Mellino che ho menzionato consentono del resto di indicare immediatamente due aspetti di questa originalità . In primo luogo, alla radice del suo lavoro sulla problematica postcoloniale c’è una specifica lettura della storia degli «studi culturali» britannici, che è anche la storia di una componente significativa della «nuova sinistra» britannica (basti dire che il già  ricordato Stuart Hall è stato il primo direttore della «New Left Review», al momento della sua nascita nel 1959). Il primo capitolo di Cittadinanze postcoloniali dà  conto di questa storia, mostrando in modo molto efficace l’intrecciarsi in essa di vicende interne a singole discipline accademiche (dalla critica letteraria alla storiografia) con esperienze come l’educazione per adulti, lo sviluppo del welfare e le trasformazioni delle culture operaie e popolari.
È dall’interno di questa storia che nel corso degli anni Settanta, sulla spinta della presa di parola delle donne e dei migranti, si produce negli studi culturali britannici (e in particolare nel lavoro di Stuart Hall) quella che Mellino definisce una «svolta anti-umanistica». La ricezione di temi propri del dibattito strutturalista e post-strutturalista francese si combina con una originale lettura di Gramsci per ripensare complessivamente il «centro» a partire dai «margini», in una situazione in cui questi ultimi (attraverso le lotte di «migranti, neri, donne, soggetti coloniali, giovani, classi operaie ecc», per riprendere i termini impiegati da Stuart Hall) rifiutano ormai ogni marginalità . È questo il momento in cui la «questione postcoloniale» si installa al centro dell’orizzonte degli studi culturali britannici, investendo criticamente e «decostruendo» efficacemente una categoria come quella di Britishness, «britannicità ».
A questa prima matrice della questione e della critica postcoloniale, nel lavoro di Mellino se ne aggiunge una seconda, che lega strettamente postcolonialismo e anticolonialismo. La condizione postcoloniale si presenta così «sotto una duplice valenza»: da una parte afferma la persistenza di elementi coloniali (e «neocoloniali») nelle strutture di dominio contemporanee (tanto sul piano materiale quanto su quello «epistemico», ovvero degli immaginari, delle culture, dell’organizzazione della conoscenza); dall’altra parte essa «fa riferimento non tanto a un sistema di rapporti postcoloniali pacificato, quanto a un momento di lotta e di transizione», al cui interno il pensiero e i movimenti anticoloniali costituiscono un archivio essenziale per la comprensione e la critica del presente. O meglio: per la comprensione e la critica del capitalismo contemporaneo. C’è qui un ulteriore elemento di originalità  del lavoro di Mellino, che facendo interagire le due matrici indicate (mettendo in scena, si potrebbe dire per semplificare, un dialogo a distanza tra Hall e Fanon) propone una «lettura materialistica del significante postcoloniale» e una definizione del capitalismo contemporaneo come «capitalismo postcoloniale».
Una realtà  proteiforme

Che cosa si deve intendere con questa formula? Essa si applica da una parte agli sconvolgimenti delle geografie globali dell’accumulazione, alle formidabili tensioni che si scaricano sugli assetti consolidati dei rapporti tra centro e periferia all’interno del «sistema mondo» capitalistico. Ma parlare di «capitalismo postcoloniale» aiuta anche a spodestare ogni prospettiva etno-centrica sui conflitti e sulle lotte che segnano un modo di produzione in cui le dinamiche della finanziarizzazione e dell’economia della conoscenza si presentano strutturalmente articolate con processi analoghi a quelli descritti da Marx a proposito della «cosiddetta accumulazione originaria». La definizione di Fanon della colonia come «realtà  proteiforme, priva di equilibrio, in cui coesistono al tempo stesso lo schiavismo, il servaggio, la permuta, l’artigianato e le operazioni di borsa» indica così un insieme di caratteri che per Mellino si sono oggi generalizzati, estendendosi «anche all’interno dei paesi capitalistici più avanzati». L’analisi dei processi di «inclusione differenziale» dei migranti in Italia e in Europa, su cui Cittadinanze postcoloniali si sofferma lungamente, diviene cruciale per la verifica di questa ipotesi – ma soprattutto per avviare la ricerca sull’eterogeneità  costitutiva della composizione del lavoro vivo contemporaneo, sulle pratiche di resistenza e di lotta che la caratterizzano: la duplice valenza del termine postcoloniale vale anche, ovviamente, laddove lo si utilizzi per qualificare il capitalismo.
Se Hall e Fanon ben si prestano a indicare due matrici fondamentali della questione postcoloniale attorno a cui lavora Mellino, è il caso di indicarne una terza, che mi pare sia divenuta sempre più rilevante per lui negli ultimi anni. Mi riferisco a quel composito movimento di studi che si è venuto formando attorno all’esperienza coloniale in America latina, e che ha assunto – non senza una venatura polemica nei confronti degli studi postcoloniali (accusati di assumere la colonizzazione britannica dell’India come paradigmatica e di trascurare la rilevanza originaria della «conquista») – la denominazione «decoloniale». Si tratta di un movimento radicato in alcune università  statunitensi, che ha però incrociato alcuni degli sviluppi teorici più interessanti nell’America latina degli ultimi due decenni (in particolare attorno alla critica dello «sviluppo» e alle lotte degli indigeni). Particolarmente importante per Mellino è il lavoro dell’intellettuale peruviano Anibal Quijano, da cui riprende la tesi di un nesso costitutivo tra capitalismo e razzismo (tra la gerarchizzazione su basi razziali della forza lavoro e quella che Quijano definisce la «colonialità  del potere capitalistico mondiale»). È questo il punto d’avvio dell’analisi svolta nell’ultimo capitolo di Cittadinanze postcoloniali, un intervento per molti aspetti provocatorio sui temi della razza e del razzismo nel nostro presente (al centro di un recente volume curato dallo stesso Mellino insieme ad Anna Curcio, La razza al lavoro, manifestolibri).
Razzismo senza razze
La tesi di fondo di Mellino, in questa parte del suo lavoro, è che lo spettro della razza (e non semplicemente il razzismo, magari nella forma di un «razzismo senza razze») continui ampiamente a circolare in Italia e in Europa. Esso è anzi considerato un elemento costitutivo della «duplice valenza» della condizione postcoloniale da lui identificata, un elemento che gioca un ruolo fondamentale in particolare nel governo dei processi di «inclusione differenziale» dei migranti all’interno della cittadinanza e del mercato del lavoro. Vi è qui evidentemente una marcata distanza critica da tutte le teorie del razzismo che lo riducono a un piano antropologico, psicologico o di «opinioni». La razza è per Mellino un dispositivo materiale di dominazione che assegna oggettivamente agli individui la loro posizione nella società  sulla base di un’appartenenza (nazionale, religiosa, «etnica») quotidianamente prodotta e confermata da meccanismi giuridici e culturali, da dinamiche politiche, economiche e sociali. Il termine chiave introdotto da Mellino per indicare il funzionamento di questo dispositivo è «razzializzazione». Molto diffuso nei dibattiti di lingua inglese, non è un termine elegante in italiano. Credo tuttavia che, una volta che si sia posto l’accento sulla duttilità , sulla flessibilità  e sui caratteri elusivi dei processi di «razzializzazione» (una volta che si sia cioè liberato il termine dall’essenzialismo e dalla rigidità  che il linguaggio della razza porta necessariamente con sé), esso possa contribuire a un rinnovamento non solo delle teorie del razzismo ma anche delle pratiche antirazziste in Italia.
All’interno delle condizioni del «capitalismo postcoloniale», del resto, queste ultime non possono che essere per Mellino calate all’interno di un più generale processo di lotta e di incontro tra «singolarità , soggettività , differenze» unite dalla tensione verso l’apertura di un nuovo mondo, «finalmente governato dal comune»


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