IL PAESE CHE RIMANDA ALL’ULTIMO MINUTO

by Sergio Segio | 18 Febbraio 2013 7:27

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Un velo può nascondere l’oggetto alla vista, ma può anche far risaltare meglio ciò che prima era nascosto. È quanto accade nel libro di Pier Aldo Rovatti, e
Il velo di sobrietà  del titolo è il nuovo stile introdotto nel discorso pubblico italiano con l’avvento di Mario Monti, nel novembre del 2011. Questo diaframma ha permesso agli italiani di guardare alla situazione del paese con un “supplemento di civile distanza” dal populismo televisivo, ma ha anche consentito di mettere a nudo, “svelata”, l’emergenza sociale fino a quel momento negata e rimossa. L’Italia nell’anno dei tecnici e del professore col loden è protagonista di questo volume (Il Saggiatore) che raccoglie (riscritti) articoli usciti sul Piccolo di Trieste da metà  2011 a fine 2012. I fatti di cronaca, però, se guardati en philosophe (Rovatti insegna Filosofia contemporanea a Trieste e dirige la rivista aut aut) rivelano sempre qualcosa di profondamente radicato nella mentalità , nella storia, e nella vita, pubblica e privata, del paese.
E dunque per il filosofo anche le notazioni di costume, come accade quando si osservano le abitudini diffuse e le loro conseguenze “civili”, diventano considerazioni politiche. Così, capita a Rovatti di individuare come caratteristica peculiare del “carattere italiano”, il vizio di “rimandare”. «Gli italiani – scrive – sono quelli che si riducono all’ultimo minuto. Rimandano sempre, procrastinano a oltranza, aspettano e aspettano. Il tempo sta scadendo, ma ancora indugiano come se il tempo non finisse mai». L’effetto è che nel nostro paese è impossibile programmare alcunché: «nessun progetto e quindi nessuna idea di futuro ». Non si potrebbe dir meglio e verrebbe da aggiungere: ecco come è nato il nostro spaventoso debito pubblico. Le spese di oggi pagate con i soldi di domani. Grazie all’idea consolidata che un problema del presente possa essere rimandato a un futuro imprecisato.
O la battaglia sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, può essere illuminata da una prospettiva apparentemente laterale, quella linguistica. Rovatti ci spiega che quando chi vuole cancellarlo insiste a dire “è solo un simbolo” nell’intenzione di svalutarne l’importanza, commette in realtà  due errori. Per prima cosa non capisce che i simboli sono “saturi di realtà ”, rappresentano qualcosa di concretissimo, in questo caso un diritto conquistato dai lavoratori con decenni di lotte. E poi, se si sottintende che quella norma non ha nessuna conseguenza pratica, coerenza vorrebbe che non ci si accanisse contro di essa come se fosse questione di vita o di morte.
Ma tutto il libro è percorso da un’inquietudine costante: il cambiamento arrivato con Monti, la “sobrietà ” dei professori, è destinato a durare? Con il governo Berlusconi è finito anche il berlusconismo? E quel “teatro televisivo” che «innerva la cultura dominante, tutta quanta, sull’esempio del teatrino stabile dei nostri politici»? La risposta, purtroppo, è negativa. E Rovatti se ne accorge subito, prima che cominciasse la campagna elettorale, prima che il premier decidesse di “salire” in politica e adottasse uno stile molto meno “sobrio”, e che il populismo, tra Grillo e Berlusconi, tornasse protagonista. Perché per uscirne occorre intraprendere «un cammino che non si percorre né in pochi giorni né in un solo anno».

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