by Sergio Segio | 27 Febbraio 2013 9:46
MILANO — Una tempesta perfetta. Una debacle su tutta la linea, annunciata e temuta ma non per questo meno violenta. Ingovernabilità , stallo (una della parole più utilizzate nei commenti finanziari stranieri), scenari caotici si traducono in una giornata da dimenticare. Piazza Affari apre in calo dell’1,5% ma solo perché la maggior parte dei titoli non riesce a far prezzo, per eccesso di ribasso; nel giro di una mezz’ora l’indice si posiziona su un meno 5%, valore che a fine giornata conferma (il Ftse Mib, che racchiude i titoli maggiori, ha chiuso in perdita del 4,89%).
A sera, la Borsa italiana si trova più povera di 17 miliardi — tanto ha bruciato in una sola seduta — mentre Banco Popolare e Mediolanum chiudono in calo di oltre il 10% (Intesa perde il 9%, Mediobanca l’ 8,64% e Unicredit l’8,46%). Crolli diffusi su tutto il listino ma più violenti sulle banche, fotografia fedele del rischio-Paese: nel corso della seduta lo tsunami si abbatte in particolare su Intesa Sanpaolo, su cui la Consob decide di intervenire vietando (anche per oggi) le vendite allo
scoperto; decisione estesa anche a Banca Carige e in tarda serata a Mediolanum e Banco Popolare. Il nervosismo si diffonde rapidamente agli altri mercati: Madrid, l’anello più debole, cede il 3,2%, Parigi il 2,67% e quasi altrettanto Francoforte, mentre Londra scende dell’1,34%. Wall Street invece è in rialzo di quasi un punto: stavolta gli Usa non si fanno travolgere dalle preoccupazioni del voto, confortati dalle parole del presidente della Fed. Ben Bernanke ha assicurato le istituzioni che l’esposizione delle banche Usa all’Italia è modesta e poi ha aggiunto: «Non sono un esperto di politica italiana ma nessun candidato ha rigettato interamente l’euro e le sue politiche». Infine, sul fronte domestico, ha confermato che i «chiari benefici» della politica monetaria super-accomodante (il quantitative easing) superano i potenziali rischi e dunque la Fed per ora non cambierà strada.
Fumata plumbea anche se non nera invece in Italia sull’asta sui Bot a sei mesi, che ieri ha registrato una buona richiesta da parte dei risparmiatori, a prezzo però di un fortissimo rialzo dei rendimenti. Il tasso infatti è stato pari all’1,237%, il che significa poco meno del doppio rispetto l’asta precedente, in gennaio (0,731%). Il che vuol dire, per i prossimi sei mesi, che lo Stato pagherà su quei Bot quasi 54 milioni di interesse invece dei 32 pagati in gennaio. Oggi si replica, con l’asta dei Btp a cinque e dieci anni: un appuntamento che rischia di essere ben più impegnativo (anche se l’importo offerto è minore) per via della lunghezza dei titoli. Le premesse per temere ci sono tutte: ieri lo spread, il primo e più semplice termometro
della febbre dei nostri titoli di Stato, si è impennato come non faceva da tempo e il Btp decennale italiano rendeva ieri 344 punti base in più del titolo analogo tedesco. In un solo giorno, la distanza si è ampliata di una cinquantina di punti base e a fine serata il rendimento del Btp aveva toccato quota 4,88% (40 centesimi in più della vigilia). Del resto, ieri anche assicurarsi dal rischio Italia costava molto di più: per comprare il Cds (così si chiama in termini tecnici la polizza dal rischio default) infatti bisognava pagare 293 punti, 42 di più della vigilia (e incremento analogo si registra sulle principali società italiane). Giudizio sospeso anche da Standard & Poor’s: «Il rating del debito sovrano italiano non sarà immediatamente influenzato dall’esito delle elezioni ma saranno le scelte politiche che farà il prossimo governo a determinare
il voto».
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