Il keynesismo criminogeno del Cavaliere

by Sergio Segio | 8 Febbraio 2013 7:49

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Ma dire la verità  presuppone una scelta partigiana: la verità , infatti, è sempre situata da una parte.
La parte in cui ci vorremmo situare non è una generica «sinistra»: da tempo questa parola non significa più nulla, se non un vago antagonismo morale rispetto alla figura di Silvio Berlusconi. Basti pensare che tra le sue file sono stati arruolati Montanelli e Scalfari, Di Pietro e Borrelli, Ciampi e Prodi (e Amato), e perfino organi dello stato come la Corte costituzionale o interi apparati statali, come la magistratura.
La parte per cui vorremmo prendere parola è piuttosto la «parte maledetta»: quella stessa di cui scrisse Bataille in un’opera visionaria e che sola può spiegare la verità  delle più estreme posizioni politiche di Berlusconi, così come la logica della polarizzazione dello scontro politico intorno a lui.
Siccome i numeri aiutano a ragionare, ne ricordiamo qualcuno. In Germania, il numero di processi civili che sopravvengono annualmente ad ogni giudice è di circa 55. In Francia, 225. In Italia, poco meno di 450. In Germania, il numero di sopravvenienze penali annue per ciascun giudice è poco più di 40 (parliamo di reati gravi). In Francia, poco più di 80. In Italia, quasi 200.
Gli economisti mainstream ci dicono che è colpa dei troppi avvocati: che in effetti per ciascun giudice togato sono circa 7 in Germania e Francia, contro più di 26 in Italia. Ma spiegare il numero delle cause col numero degli avvocati è pura insipienza: se gli italiani non facessero cause o reati, gli avvocati morirebbero di fame.
A meno dunque di ritenere che gli italiani siano causidici o delinquenti per natura, si deve guardare altrove per scoprire le cause di una giustizia così pletorica. Anche qui aiuta il confronto con la Germania e la Francia. Quando un’economia si affida al mercato, la composizione della struttura produttiva è decisiva per l’adozione di strategie competitive diverse dalla compressione dei costi. È ciò che hanno potuto fare la Germania e, in misura inferiore, la Francia. Non così l’Italia: con una struttura produttiva fatta per lo più di agroalimentare, arredo casa, automazione meccanica e abbigliamento, e con oltre l’80% del tessuto produttivo fatto di imprese con meno di cinque dipendenti, abbiamo subito la concorrenza dei paesi emergenti, che possono produrre le nostre stesse merci a costi incomparabilmente inferiori. La compressione dei costi è stata così una necessità .
Non c’è da stupirsi, allora, se il cambiamento di costituzione materiale che il nostro Paese ha vissuto dal 1992 in poi, a seguito della scelta di sottrarre allo stato le leve del comando dell’economia, si è accompagnato all’ulteriore declino della nostra industria e all’impoverimento di ampie fasce della popolazione, specie tra i lavoratori dipendenti e i pensionati: quell’esito era inscritto come logica (benché tragica) conseguenza della svolta verso il laisser faire. Una svolta voluta in primis da Amato, Ciampi, Prodi.
Per converso, la nostra legislazione è rimasta ancora per molti aspetti «infettata» dalla pretesa dell’art. 41 della Costituzione di controllare socialmente le attività  private. Liberalizzazioni e deregolamentazioni hanno investito il lavoro come gli affitti delle case, l’attività  bancaria come la telefonia, ma sono rimasti molti vincoli sull’uso delle risorse pubbliche (dall’ambiente al paesaggio urbano) e sulla stessa disponibilità  di quelle private. E sono rimasti, benché acciaccati, anche il fisco e il sistema pensionistico e le loro pretese sui redditi da lavoro e d’impresa, per di più crescenti a causa della supposta necessità  di rientrare dal debito pubblico.
Vale la pena ripeterlo: se un sistema economico si affida al mercato, solo la composizione della struttura produttiva può salvarlo da una competizione giocata sui costi. Se così non accade, anche il controllo di legalità  diventa un costo da ridurre quanto più possibile: ne va della sopravvivenza del sistema.
Solo degli inguaribili idealisti possono dunque credere che sia un problema «morale» e non economico il fatto che il 30% del nostro Pil sia un’opera al nero. La realtà  è ben diversa. La spinta alla delinquenza è sistemica e – del tutto logicamente – anche tollerata. Abusivismi di ogni sorta proliferano sotto gli occhi di tutti. Le imprese sopravvivono solo grazie all’elusione e all’evasione, fiscale e contributiva. I lavoratori e soprattutto i disoccupati cercano di spuntare reddito con tutti i mezzi possibili, inclusi non di rado la truffa, il furto, la rapina. E tutti tentano di sfuggire al pagamento dei debiti contratti con banche, finanziarie ed Equitalia. Fate un giro per i tribunali di tutta Italia: dal civile al penale, raccontano di questo.
Berlusconi l’ha capito per tempo e si è mosso di conseguenza. Con una differenza fondamentale rispetto ai suoi avversari. Che non concerne, beninteso, le questioni su cui tradizionalmente si dividevano destra e sinistra: su queste ultime, essi la pensano esattamente come lui. Condividono, cioè, che non la politica ma il mercato debba provvedere all’allocazione delle risorse e che rispetto alla crisi la pianificazione pubblica non sia la soluzione, ma – come disse Reagan – il problema.
La differenza tra Berlusconi e i suoi antagonisti concerne piuttosto il ruolo della spesa pubblica. Egli sa bene che in questo Paese non c’è laisser faire che non abbisogni di un laisser délinquer, ma sa altrettanto bene che, senza un sostegno alla domanda interna, non c’è deriva delinquenziale che possa salvarci dall’impoverimento e dalla svendita all’estero delle nostre attività . E dato che questo sostegno non può venirci dalla bilancia dei pagamenti, strutturalmente in disavanzo per lo spread della composizione della nostra offerta industriale rispetto a quella dei nostri vicini tedeschi e francesi, non è disposto a rinunciare alle «esportazioni interne» garantite dalla spesa pubblica: vero e unico primum movens di un sovrappiù che andrebbe altrimenti sprecato, compromettendo in modo ancor più marcato i già  risicati livelli di sussistenza (e di consumo) delle masse.
Sebbene mosso in primis da intenti squisitamente privati, Berlusconi ha potuto così recitare la parte del «campione dell’interesse nazionale»: proprio come accadde a Mussolini, che non a caso gode della stima del Cavaliere. E rivolgendosi direttamente al desiderio di molta parte dell’Italia, ha interpretato lo Zeitgeist assai meglio dei suoi avversari. I quali invece hanno creduto (o fatto finta di credere) alle favole moraliste secondo cui il libero mercato funzionerebbe benissimo se solo all’ombra della spesa pubblica non albergassero ladri e «furbetti», mafiosi e corrotti. Come se la riproduzione del nostro capitalismo potesse appunto prescindere dall’una e dagli altri e non fosse invece obbligata dai vincoli derivanti dalla sua conformazione produttiva a invocare dosi sempre crescenti di spese clientelari e «zone franche» dai controlli di legalità .
Non c’è da stupirsi, allora, se le insistite giaculatorie in pro della moralità  pubblica non scalfiscano il consenso strutturale di cui gode Berlusconi, né quando si scopre – conti alla mano – che i suoi governi sono stati gli unici a praticare le virtù del keynesismo (criminogeno, certo, ma pur sempre keynesismo è stato). Semmai è paradossale che, nella confusa babele della campagna elettorale, egli sia stato l’unico a dire parole di verità  sull’Europa: precisamente quando, in modo pur contraddittorio, ha tentato di spiegare quel che i suoi antagonisti non sono disposti ad ammettere, vale a dire che il debito pubblico non è affatto la causa principale dell’andamento dello spread sui tassi d’interesse, che la causa di quest’ultimo risiede negli squilibri strutturali dell’eurozona e che le politiche di «austerità », lungi dal ridurre quegli squilibri, non fanno che accrescerli.
Ecco il punto: il debito pubblico, cioè la spesa pubblica. Si è detto più volte, nei mesi scorsi, che l’ascesa di Monti al soglio di palazzo Chigi segnava simbolicamente il «ritorno del Padre» a risvegliare i figli (cioè noi tutti) dall’illusione immaginaria di un eterno godimento fondato sul debito. Se ciò è vero, bisogna riconoscere che nella disperata resistenza ad ogni ipotesi di ulteriori «sacrifici» avvenire (fino al punto di rimettere in discussione il fiscal compact: unico tra i leader di rilievo ad averlo fatto) sta la verità  della posizione di Berlusconi e, ad un tempo, il problema che essa ci pone. Perché se è vero che bisogna guardarsi dalla deriva del godimento rivendicata e messa in atto da colui che incarna il sembiante del ritratto di Dorian Gray della nostra classe dirigente, resta intatto il problema di come emancipare il godimento – la dépense, direbbe Bataille, cioè la spesa pubblica – dalla negatività  che i corifei di un capitalismo asceticamente weberiano (ma solo per i lavoratori, à§a va sans dire) gli hanno ributtato sopra. «Parte maledetta», appunto: fino a quando?

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