Il freno autocritico delle «toghe rosse» al protagonismo dei magistrati
Un po’ meno, forse, se l’avvertimento arriva dal procuratore della Repubblica di Milano, Edmondo Bruti Liberati, durante il congresso della corrente di sinistra dei giudici, le cosiddette «toghe rosse» solitamente accusate da Berlusconi e dalla sua parte politica di quello stesso protagonismo animato da salvifiche intenzioni. Ma a stupirsi può essere solo chi non conosce — o non vuole riconoscere, strumentalmente — il rigore e la professionalità del magistrato che dirige uno degli uffici più coinvolti nelle ricorrenti polemiche sul presunto «uso politico» di indagini e processi. Né deve meravigliare che dallo stesso procuratore sia giunto un forte richiamo a quei colleghi che «talmente scrivono e parlano di professionalità , che forse non hanno tempo residuo per mettere a frutto quella professionalità nel quotidiano lavoro d’ufficio». Fino all’attacco frontale alle «Procure ove sembra che la competenza territoriale sia un optional», con esplicito riferimento alla «new entry» di Trani sulla vicenda del Monte dei Paschi di Siena.
Chi è al corrente delle dinamiche interne alla magistratura sa che queste posizioni non sono una novità . Ma nel costante conflitto tra politica e giustizia, e alla luce di iniziative giudiziarie controverse, i moniti del procuratore di Milano assumono grande rilevanza. Proprio perché vengono dall’interno del potere giudiziario, e dalla sua componente ideologicamente più caratterizzata, che ha sempre rivendicato «l’intrinseca politicità della giurisdizione»; per gli effetti che produce e i diritti che è chiamata a salvaguardare, però, non per gli interessi personali o politici di chi la esercita. Ecco allora che le parole di Bruti suonano come una positiva autocritica. Non tanto per chi le ha pronunciate, ma per la categoria alla quale appartiene. Un appello ad esercitare con estrema cura e attenzione l’azione penale, che acquista un significato ancora maggiore se si sovrappone a quello di un altro protagonista del congresso di Magistratura democratica; non un giudice, un filosofo del diritto da sempre mentore delle «toghe rosse»: il professor Luigi Ferrajoli. Il quale s’è detto «fortemente impressionato dal protagonismo, dalla supponenza e dal settarismo di taluni magistrati messo in scena dai media dapprima nello svolgimento del loro ruolo di pubblici ministeri, e poi nella campagna politica nella quale si sono gettati in questi mesi». Il riferimento ad Antonio Ingroia e al suo ruolo di pm antimafia prima e di candidato premier subito dopo non poteva essere più chiaro. Anche perché nello stesso intervento il professore ha dichiarato «inammissibile che un pubblico ministero scriva un libro intitolato Io so a proposito di un processo in corso da lui stesso istruito». Altra allusione a Ingroia e alla sua indagine sulla presunta trattativa fra Stato e mafia, a proposito della quale ha voluto aggiungere: «Mi è difficile capire come si possa, senza ledere il principio di tassatività e il divieto di analogia, accomunare nel reato di minaccia a un Corpo politico sia gli autori della minaccia, sia quanti ne furono i destinatari, o i tramiti, o le vittime designate». Naturalmente si tratta di opinioni, come tali discutibili. E su quell’inchiesta ci sono argomenti che ben possono contrastare il convincimento di Ferrajoli. Il processo farà il suo corso, ed è una curiosa coincidenza che tra i congressisti di Md ai quali era rivolto il contributo del professore ci fossero sia uno dei pm che hanno chiesto il rinvio a giudizio degli imputati, sia il giudice chiamato a decidere la loro sorte. Comunque finirà , la scelta politica di Ingroia (formalmente del tutto legittima, ma sulla cui opportunità molti hanno avuto da ridire) peserà non tanto sull’esito quanto sulla ricaduta che quell’esito avrà sul dibattito pubblico. Che inevitabilmente travalica l’aula in cui sarà emesso il verdetto. È una considerazione che vale non solo per il processo sulla trattativa, ma per tutti i procedimenti che hanno ricadute sul versante politico e istituzionale. Da Milano a Palermo, passando per Siena, Roma, Napoli, Trani e ogni altro ufficio giudiziario. Quanto più pm e giudici terranno comportamenti immuni da ambiguità e strumentalizzazioni anche solo ipotetiche, tanto più le loro scelte saranno credibili e insospettabili di doppi fini. Anche perché, come ha insegnato la storia degli ultimi vent’anni, le polemiche su un singolo caso finiscono inesorabilmente per allargarsi al più ampio rapporto tra politica e giustizia. Che dovrebbe essere basato su un principio fondamentale e al tempo stesso elementare, che però ancora il professor Ferrajoli ha ritenuto utile ricordare alla platea dei giudici di sinistra: «La separazione dei poteri va difesa son solo dalle indebite interferenze della politica nell’attività giudiziaria, ma anche dalle indebite interferenze della giurisdizione nella sfera di competenza della politica».
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