by Sergio Segio | 13 Febbraio 2013 7:12
CITTà€ DEL VATICANO — «Mi chiedo: che cosa infonde energia? Che cosa ha dato tanta energia ai nostri genitori? Che cosa ha dato a Martin Luther King l’energia di lottare fino alla morte? La visione, i sogni. Quasi tutto il mondo ricorda le parole di Martin Luther King: “Io ho un sogno”. Quando ci sono dei sogni, potenti e coinvolgenti, abbiamo sempre riserve di energia». Sono parole importanti, quelle del cardinale filippino Luis Antonio Tagle. «La persona che coltiva un ideale ha qualcosa per cui morire, per cui offrire la propria vita. Se si ha qualcosa per cui morire, si ha qualcosa per cui vivere». Ai primi di marzo, quando Benedetto XVI non sarà più Papa e inizierà la «sede vacante» verso il Conclave, uscirà il primo libro in Italia dell’arcivescovo di Manila, «Gente di Pasqua. La comunità cristiana, profezia di speranza» (Emi, pp. 144, euro 13). Personalità emergente della Chiesa orientale, creato cardinale a 55 anni nell’ultimo concistoro di novembre, è considerato uno dei «papabili», ipotesi suggestiva perché in qualche modo starebbe all’Oriente e alla Cina come Wojtyla all’Est Europa. Ha voluto che il suo libro fosse firmato col nome completo: Luis Antonio Gokim Tagle. E il dettaglio è importante: Gokim è il nome della madre cinese, lui stesso ha raccontato come «nelle Filippine molti si sorprendano che sia filippino: mi pensano cinese, per i tratti del mio volto».
Benedetto XVI ha parlato del «vigore» necessario al suo successore per affrontare i «rapidi mutamenti» del nostro tempo. Di là dall’esito del Conclave, quello del cardinale filippino è un testo che mostra il livello dei temi che i porporati discuteranno durante le «congregazioni generali» che precedono il voto nella Sistina. Parla della «globalizzazione di élite», il cardinale. «Come le persone e le idee, anche i capitali si spostano velocemente in tutto il mondo, perché anche le nostre economie sono globalizzate. Ma, naturalmente, il trasferimento di capitali avviene solo per coloro che sono già economicamente forti… Ciò si verifica solo per le grandi imprese e le persone più ricche», scrive nell’introduzione. «È il potere del denaro a stabilire chi può superare ogni ostacolo. Per i poveri senza potere, i muri che li separano dai ricchi sono alti e grossi come prima». E poi c’è l’aspetto culturale, «sembra che ci sia una cultura neoliberale che viene esportata e proposta come l’elemento di unificazione: la cultura che unificherà l’umanità , creerà la comunione…». Ma è un inganno, si tratta di «una cultura d’ispirazione totalmente neopagana, influenzata da valori postmoderni decisamente mondani, individualistici, competitivi e materialistici». Manca il «sogno», appunto. E allora, che si fa per ridare «energia» soprattutto ai giovani, salvarli dalla «noia» contemporanea verso una società meno rassegnata e più giusta?
Nel sinodo di autunno, Tagle si era fatto notare per la sua replica sorridente ai vescovi occidentali che lamentavano la secolarizzazione crescente, la crisi della fede e così via: «Ricordatevi che se una persona ammalata continua a lamentarsi della sua malattia e a ricordare agli altri che sta male, finisce per sentirsi ancora peggio. Lo stesso vale per la Chiesa». Ora scrive che oggi, in generale, «siamo sempre più intolleranti gli uni verso gli altri, e di solito sono gli “altri” a rappresentare il capro espiatorio dei mali che troviamo nella società ». Il senso della comunità , l’andare verso gli altri, la necessità di «testimoniare senza paura», la «diversità » e l’esempio della «Chiesa primitiva». Nel mondo della «globalizzazione di élite», a volte, «dire “Dio” non è facile, può essere molto rischioso», considera.
Ma come Gesù ha sostenuto l’incredulo Tommaso, «anche noi avremo sostegno». È la conclusione vertiginosa del libro: «Ascoltate la gente dire “Dio”. Imparate dal popolo, dai dimenticati, dai vostri vicini. Ricordate che il nostro modo di dire “Dio” non è l’unico. Imparate da loro. Imparate dalle vittime di violenze e dolori senza senso. Imparate come dicono “Dio” nella speranza. Imparate da quelli che sono spinti ai limiti del paradosso di dire “Dio”, quelli che a volte non lo dicono ma neppure mai lo dimenticano. Imparate da loro. Noi dobbiamo continuare a dire “Dio” con tutte le gioie, i dolori e i rischi che ciò comporta. Continuate a dire “Dio” con tutta la lode e il lamento che ispira. Continuate a dire “Dio” con il silenzio che il mistero crea ed evoca. Continuate a dire “Dio”».
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