by Sergio Segio | 19 Febbraio 2013 7:54
Questi diritti sono già stati messi in luce altrove e sono ben noti alla maggior parte dei lettori. Urge una discussione sui diritti degli ebrei di risiedere in Cisgiordania in termini di diritti umani. Pensate che questo sia uno scherzo?».
L’autore sottolinea la necessità di un cambio di paradigma nella concezione sionista sottostante all’insediarsi in Palestina e prova a mettere in risalto il ruolo centrale che l’utilizzo del discorso dei diritti umani potrebbe ricoprire nella legittimazione del progetto coloniale israeliano. L’equazione su cui si regge il cambio di paradigma è che qualsiasi evacuazione degli insediamenti israeliani corrisponderebbe a un’operazione di pulizia etnica. Gli attacchi di Castro si rivolgono sia a un generico «arabo/palestinese intollerante» che alle organizzazioni non governative pacifiste, accusate di relativismo politico: «Se agli ebrei fosse nuovamente negato il diritto di abitare in Inghilterra o Spagna, questi pacifisti sarebbero disgustati. Ma allo stesso, tempo, questi stessi pacifisti sono pronti a negare i diritti degli ebrei che hanno vissuto pacificamente nelle città della Cisgiordania (le colonie) di Efrat e Ariel».
Nonostante l’ironia secondo cui una pratica di colonizzazione sofisticata e storicamente corroborata come quella israeliana venga definita come applicazione dei diritti umani – ciò che in un recente articolo con Kareem Rabie abbiamo definito «il diritto umano alla colonia» – l’argomento messo in gioco da Castro andrebbe preso molto seriamente. Forse esso costituisce la nuova frontiera della battaglia israeliana sulla frontiera coloniale.
Negli ultimi anni, la trasformazione dei piani israeliani di spossessamento dei palestinesi in una rivendicazione del diritto umano ad insediarsi è stata abbondantemente promossa da numerose organizzazioni non governative israeliane che hanno adottato e si sono appropriate del lessico e delle tecniche legali utilizzate dalle ONG che combattono per i diritti umani dei palestinesi.
Questa trasformazione è avvenuta sia sul piano locale coloniale (all’interno della Corte Suprema israeliana) che su quello internazionale. In realtà , l’argomento di Castro si radica all’interno di una tendenza di pratica già abbondantemente consolidate. Infatti, dopo il cosiddetto ritiro da Gaza, nel 2005, alcune organizzazioni della «società civile dei coloni» come Regavim («Organizzazione per la Protezione delle Terre Nazionali») e il «Forum Legale per le Terre di Israele» hanno progressivamente cercato di offuscare ulteriormente le lotte legali all’interno della Corte Suprema israeliana – un organo strutturalmente complice e asimmetrico che ha funzionato storicamente come sede legale per la normalizzazione della colonizzazione – essenzialmente attraverso le due seguenti pratiche. In primo luogo, attaccando l’intero sistema della Corte Suprema con l’accusa di essere «imparziale e di attuare politiche discriminatorie contro i cittadini ebrei di Israele», e allo stesso tempo combattendo dentro la corte contro ciò che – dopo l’evacuazione degli insediamenti israeliani di Gaza, nel 2005 – definiscono «l’espulsione degli ebrei dalle loro terre nazionali» e «perversione della giustizia», espressioni con cui queste organizzazioni si riferiscono ai rari ordini di demolizione delle colonie emessi dalle corti israeliane. In secondo luogo, queste organizzazioni si sono appropriate del linguaggio legale utilizzato dalle Ong che difendono i diritti dei palestinesi a non essere espulsi e spossessati delle loro terre, invertendo completamente l’assetto coloniale su cui si reggono le pratiche di insediamento israeliane e definendo le costruzioni palestinesi in Cisgiordania con espressioni come «avamposti» e «costruzioni illegali» – espressioni con cui normalmente le Ong pacifiste si riferiscono alle colonie israeliane.
Quella che potrebbe apparire come un’inversione dei termini del campo di forze coloniale – il colonizzatore dipinto come vittima di (quali?) violazioni, e il colonizzato come perpetratore di (quali?) violazioni- costituisce esattamente una delle nuove frontiere del progetto di insediamento coloniale israeliano. Storicamente, è vero che la rivendicazione della condizione di vittima ha costituito un elemento centrale della tensione coloniale di Palestina/Israele, ma è solo recentemente che un meccanismo di «specularità » legale e morale è stato messo a punto da queste Ong dedite alla realizzazione di un’agenda coloniale attraverso una serie di operazioni «a specchio».
Senza troppe sorprese, queste tecniche legali hanno già prodotto i loro risultati negli ultimi anni. Infatti, la Corte Suprema, accogliendo le petizioni di queste organizzazioni, ha già emesso ordini di demolizione contro edifici palestinesi (sia in Cisgiordania, che in Israele) in base all’argomento del «law enforcement» e dell’equa applicazione della legge. Di fatto, queste organizzazioni costituiscono l’incarnazione della relazione storica tra costruzione degli stati-nazione (in questo caso uno stato-nazione fondato sull’insediamento coloniale) e i diritti umani; una relazione in cui la definizione di ciò che è umano è accompagnata da una delimitazione identitaria esclusivista del corpo politico nazionale: il cittadino (in questo caso colono) nazionale.
Forse quello che è necessario è un cambio di paradigma e una rottura, anche nel campo delle organizzazioni e dei singoli che hanno concentrato le loro battaglie politiche sul rispetto dei diritti umani. L’orizzonte dei diritti umani – così come quello del diritto umanitario internazionale – potrebbe non essere sufficiente a contenere il linguaggio e le pratiche necessarie alla liberazione da un regime di «settler colonialism», un regime che ora pare voler rivolgersi ai diritti umani per legittimare le pratiche di insediamento ed espulsione del popolo palestinese.
* Ricercatore dell’Università di Princeton (Usa)
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