IL COLPO DI MANO CONTRO LA7
(da ‘Morire di democrazia’ di Sergio Romano – Longanesi, 2013 – pag. 106)
Questo potrebbe essere l’ultimo weekend di libertà per La7, la tv di Enrico Mentana, Lilli Gruber, Gad Lerner, Michele Santoro, Marco Travaglio e di tanti altri professionisti della televisione: come Serena Dandini, Corrado Formigli, Myrta Merlino, Tiziana Panella ed Enrico Vaime. E di conseguenza, anche per il pubblico dei suoi telespettatori.
Se lunedì prossimo il Consiglio di amministrazione di Telecom deciderà di svendere al peggior offerente Ti Media, la società che controlla l’emittente televisiva e le infrastrutture di trasmissione, farà un grosso regalo agli alleati occulti di Mediaset. La7 rischierà , allora, di diventare la quarta rete dell’impero del Biscione, oltre a Canale 5, Retequattro e Italia 1. O peggio ancora, di essere messa in liquidazione, smantellata, chiusa.
La fretta più che sospetta con cui è stata chiesta la convocazione d’urgenza del Cda, se l’amministratore delegato Franco Bernabè e la maggioranza dei consiglieri non riusciranno a respingere questo colpo di mano, induce a temere il peggio. E cioè che le “quinte colonne” di Telecom, tutte più o meno in conflitto di interessi, vogliano cedere l’intero “pacchetto” ai sodali berlusconiani. Magari anche a costo di arrecare un danno patrimoniale all’azienda, esponendosi così a un’eventuale azione di responsabilità .
Il tentativo è evidentemente quello di concludere tutto prima del voto di fine febbraio, per anticipare un responso elettorale e una svolta politica che potrebbero essere sfavorevoli al partito-azienda di Silvio Berlusconi. È assai improbabile, infatti, che nel prossimo Parlamento Mediaset possa ancora beneficiare dei favori, delle coperture e delle complicità , anche trasversali, di cui ha goduto finora. Tanto più che sulla necessità di abolire la famigerata legge Gasparri e varare una riforma televisiva convergono i programmi del centrosinistra, come ha ribadito anche ieri Pierluigi Bersani nel videoforum di Repubblica Tv; del Centro di Mario Monti e perfino del Movimento 5 Stelle. E, anzi, nella nuova legislatura potrebbe non essere questo l’unico terreno d’incontro con i “grillini”.
Vittima e simbolo del duopolio televisivo, costituito dalla Rai e da Mediaset, La7 rappresenta l’impossibilità di realizzare un “terzo polo” in grado di conquistarsi uno spazio nel sistema attuale. Non basta insomma fare una tv di qualità per sopravvivere nel mercato televisivo e pubblicitario italiano. Al più, si può riuscire a fare il “terzo incomodo”. E l’esempio di Sky, con un modello di business completamente diverso imperniato sugli abbonamenti più che sugli spot, lo conferma “al contrario”.
È dunque un approccio di sistema quello che occorre per affrontare la questione televisiva, al cui interno si colloca il caso La7. Il punto fondamentale è che l’emittente di Telecom non può finire nelle mani della congrega berlusconiana. Né può diventare uno sleeping competiror di Mediaset. O addirittura, venire soppressa per azzerare la concorrenza. Nella desertificazione culturale prodotta dalla tv commerciale, questa è comunque un’isola da tutelare e salvaguardare.
Non si fa fatica a riconoscere che una rete televisiva non appartiene al core business di una compagnia telefonica come Telecom che ha ben altri problemi da affrontare e risolvere. E perciò può essere opportuno venderla, senza tuttavia svendere a prezzi di favore i tre “multiplex” che comprendono le frequenze televisive ottenute in concessione per vent’anni dallo Stato e costituiscono perciò un cespite rilevante. È proprio questo il bene pubblico, la risorsa demaniale scarsa, da regolamentare in forza di un’efficace normativa anti-trust.
Con ciò si dimostra una volta di più il fallimento totale della legge Gasparri, imposta dal regime televisivo per difendere gli interessi dell’aziendapartito che fa capo tuttora al Cavaliere. Avevamo segnalato ripetutamente negli anni scorsi il pericolo di passare dal vecchio duopolio analogico a un nuovo duopolio digitale. E la vicenda di La7 certifica ora che l’allarme non era infondato.
Ora, alla vigilia delle elezioni, Telecom non può liquidare la sua rete televisiva prima di un riassetto dell’intero settore. Sarebbe un atto di sfida contro la futura maggioranza e il futuro governo, quali che siano. E ancor più, contro il pluralismo dell’informazione e la libera concorrenza.
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