IL CARNEVALE DELLA FIAT
È quello il termine con cui gli studiosi del folklore d’ancien régime sintetizzano il significato catartico del Carnevale quando, almeno una volta nell’anno, licet insanire – «si può sragionare» – e rappresentare la realtà quotidiana rovesciata nei suoi valori e nei suoi rapporti sociali, i poveri al posto dei ricchi, i ricchi al posto dei poveri… E in fondo tutto di quelle risposte alle pur incalzanti domande del direttore di Repubblica rispondeva alla cifra del “rovesciamento”: non solo l’idea che a Pomigliano e a Mirafiori ci sia stata una guerra tra la Fiom e gli operai, espressa da chi a quegli operai aveva imposto un diktat, e trattato i delegati Fiom con la tecnica della rappresaglia, come se fosse il comandante di un esercito di occupazione. Anche la promessa di fare di Torino un “polo del lusso”, almeno per quanto riguarda l’auto, suona burlesca.
La città industriale più impoverita (e indebitata) d’Italia! Una città manifatturiera, cresciuta nella logica della produzione di massa standardizzata, dove decine e decine di migliaia di lavoratori a qualificazione medio-bassa restano appesi al destino di quelle catene di montaggio, salvata dalla produzione di nicchia delle Maserati e dei Suv ultra-energivori? Suvvia! E anche, bisogna ben dirlo, il commento del primo cittadino della città , che ha giudicato «parole di verità » quelle dell’Ad Fiat! Quelle, per esempio, con cui questi ha qualificato come un «grave errore» – un’«imbecillaggine» ha detto, con un veniale rovesciamento dell’ortografia – l’aver lanciato, nel marzo del 2010, il progetto Fabbrica Italia…
Già , perché anche i gatti sanno che l’annuncio di quel piano da venti miliardi di investimenti, proclamati così, tondi tondi, senza nessuna clausola di “salvaguardia” relativa all’incognita del mercato, non era frutto di un errore di comunicazione, o di un fraintendimento circa l’ “intelligenza” del pubblico cui era rivolto. Serviva, esattamente così come fu presentato, per ottenere il risultato voluto, e cioè la resa dei sindacati e degli operai. Era quello – con la promessa salvaguardia dei posti di lavoro che quel denaro avrebbe dovuto comportare – il pilastro su cui si è retto tutto il percorso successivo: l’imposizione dell’Accordo capestro, la richiesta – accordata dalle rappresentanze condiscendenti – delle nuove durissime condizioni di lavoro, e la cessione dei diritti. La resa senza condizioni dei sindacati destinati a rimanere nel gioco, la denuncia del contratto nazionale, l’uscita da Confindustria e la conseguente riscrittura delle relazioni sindacali in tutti gli stabilimenti… Il tutto in modo che si sarebbe voluto indolore, come chiedevano i soci americani per portare avanti l’affare Fiat-Chrysler. Senza quell’ “imbecillaggine” probabilmente quel percorso non avrebbe neppure potuto avviarsi in assenza di conflitto.
Il “mondo alla rovescia” della tradizione – anche questo ci dicono gli etnologi – nell’apparente disordine della rappresentazione aveva una forte connotazione d’ordine: il rovesciamento di un giorno serviva a confermare i rapporti sociali e le gerarchie immodificabili di una società di ceti per tutto il resto dell’anno. E così è anche per l’iper-moderno Marchionne. La sua “licenza verbale” di un mattino ci svela una verità inossidabile anche nel mondo liquido del nostro futuro anteriore: la durezza dei rapporti di forza. La perentorietà del verbo di chi sa di avere tutti i coltelli dalla parte del manico. E di potersi permettere tutto, anche il racconto più spregiudicato. Perché dall’altra c’è quella che un altro uomo-Fiom, Giorgio Airaudo (in un libro uscito recentemente da Einaudi) ha definito la «solitudine dei lavoratori». C’è il fragoroso silenzio della politica, incapace di stabilire i limiti del «discorso sociale». Di riproporre un senso delle cose che non coincida palmarmente con il “racconto dell’impresa”. Finché questo ruolo non sarà ristabilito, per gli uomini come Marchionne – per i manager onnipotenti delle multinazionali liquide – sarà Carnevale tutto l’anno.
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