Il breve addio di Ratzinger “Dio mi chiama sul monte ma non vi abbandonerò”

by Sergio Segio | 25 Febbraio 2013 8:22

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ROMA. Ultimo Angelus ieri per Benedetto XVI, mentre un nuovo scandalo scuote la Chiesa: il cardinal O’Brien accusato di molestie.
NELLA perfetta e imperscrutabile coerenza di un enigma umano chiamato Ratzinger, il Papa che ci ha lasciato prima che potessimo conoscerlo.
Il Papa che abbandona le cure del gregge, e il gregge che vorrebbe abbracciarlo con quel calore che lui non sa concedergli, si salutano in una mattina di vento gelido sotto un cielo confuso. E se la piazza è abbastanza colma quanto è tranquilla, le bandiere molte, le lingue tante quanta l’umanità  che crede nel Cristo del cattolicesmo e nella successione di Pietro, chi si attendeva la Grande Rivelazione, il disvelamento del perché ci hai abbandonato tornerà  in Perù, nello Zimbabwe, nelle parrocchie del Trentino o della Ciociaria dovendo meditare. «In questo momento della mia vita, il Signore mi chiama a salire sul monte, a dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione», dice il Papa. E soprattutto a pregare infatti li inviterà  Benedetto, sul miracolo della Trasfigurazione di Cristo segnalato non per coincidenza forse di date, dal Vangelo della domenica di
Quaresima.
Avverto il brivido dell’attesa scuotere il popolo di Santa Romana Chiesa quando alle 11.45 finalmente quella finestra alla quale le gente sulla piazza televisiva del mondo aveva seguito con angoscia filiale le strazianti scalate di Govanni Paolo II sul corrimano per raggiungere il davanzale e poi la sua agonia, si apre, il drappo rosso con l’insegna pontificia si srotola, la tendina bianca antisole si estende e il leggio di plexiglas con il microfono viene esposto. Tra gli striscioni tonanti dei ciellini, “Chi si lascia afferrare da Cristo è libero”, e le lenzuoline bianche artigianali di chi si limita con minore magniloquenza a dire al Papa con pennelli e sintassi da twitter “We love U”, corre l’attesa di un prodigio. La speranza di un segno provvidenziale che aiuti la comunità  dei fedeli, all’oscuro di trame e motivi ma perfettamente informata di voci e sospetti, a capire, a sperare.
Ma allo scoccare meticoloso del mezzogiorno, quando la figura fragilissima di Ratzinger resa un poco più sostanziosa dall’effetto ottico dell’ampia veste bianca appare, l’applauso è contenuto, l’invocazione pudica, come se improvvisamente la folla si ricordasse che quello è un pontefice che non desidera le acclamazioni, che non si nutre, come il predecessore, del “feedback”, del ritorno di entusiasmo popolare. E infatti, seppure invecchiato, stanco, “patiens” come disse nel messaggio latino di dimissioni, delude soltanto chi si era illuso.
Non ho più le forze per questo compito, dirà , nel brevissimo momento di intimità  con la gente, ora farò ciò che Dio mi ha chiamato a fare. «Ma questo non significa abbandonare la Chiesa, anzi, se Dio mi chiede proprio questo è perché possa continuare a servirla con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui l’ho fatto finora, ma in un modo più adatto alle mie forze». Ma anche in questo lumicino di ammissione Benedetto XVI lascia la penombra dell’interpretazione: non ha le forze fisiche per continuare, o non ha più la forza intima, psicologica, pratica per misurarsi con l’oscurità  di una Curia e di una gerarchia che avrebbe bisogno di riflettori, non di candeline? Ha avuto grande coraggio o grande paura?
“Emanuela Orlandi” grida un cartellone nel centro della piazza affollata ufficialmente da centomila, ma non densa, per ricordare soltanto uno, e non dei minori, fra i misteri ingloriosi della curia, la scomparsa di quella giovane donna 30 anni or sono da una chiesa.
«È un uomo depresso, glielo dico io», mi spiegherà  una signora romana che da generazioni segue i labirinti vaticani per «motivi di famiglia» vivendo dal di dentro. Le diagnosi, psichiatriche o fisiche, agitano la folla, ma a me quest’uomo pare, oltre il corpo consumato dal tempo, lo stesso del 19 aprile 2005, quando apparve sul balcone del “Gaudium Magnum”. Allora tacque a lungo, guardò incredulo la piazza che
guardava lui con le sue attonite occhiaie e dovette essere richiamato, con una sapiente e lievissima gomitatina di un monsignore, a quella benedizione solenne, «… et benedicat vos Omnipotens Dei», che da sempre i credenti, e magari anche i superstiziosi, pretendono e lui stava dimenticando.
La voce è forte, ben rilanciata dai formidabili amplificatori e altoparlanti vaticani, favorita dal breve impegno dell’Angelo: tre minuti e mezzo appena di rito mariano, l’Angelo essendo quel Gabriele che annuncia alla Vergine il miracolo della maternità  divina. Poi un minuto di ringraziamento per le preghiere e l’affetto di chi lo ha accompagnato nella Grande Rinuncia, e tre e mezzo per i saluti nelle principali lingue europee, spagnolo, tedesco, italiano, portoghese, inglese, polacco. Tutto si spiega nella Trasfigurazione di Cristo sulla montagna narrata dai Vangeli del giorno, nella leggerissima allusione alla propria trasformazione, al passaggio da uno stato di essere all’altro, di «esodo» dice, di «salita al monte». «La preghiera non è un isolarsi dal mondo e dalle sue contraddizioni, come sul Tabor avrebbe voluto fare Pietro», dice Benedetto XVI. Invita a capire che la sua futura «azione» sarà  nella preghiera e nella sofferenza, «patiendo et orando» non più «agendo et loquendo» aveva scritto di proprio pugno nel discorso shock, in tedesco o latino come scrive tutti i propri indirizzi pubblici, con quella sia grafia precisa e minuta.
In quello si esprime il massimo servizio alla Fede e dunque lui — fa capire — non scenderà  dal Soglio, ma salirà  alla più alta vocazione possibile, appunto la preghiera. «Resterò con voi», accetta di dire, interrotto per la prima e unica volta da un moto di tenerezza popolare.
Il rito dell’Angelo è sempre breve, e non ci si poteva certamente attendere da un uomo che sembra far fatica a sollevare anche la veste talare bianca con le braccia magrissime come ali quando le dispiega per abbracciare la piazza, che lo prolungasse, come pure ogni Papa potrebbe fare. Molti si attendevano di più. Nessuno, fra i molti arrivati a Roma per salutare, ma forse soprattutto per rassicurare se stessi, osa parlare di tradimento del Papa, di resa, ma chi crede davvero nella Chiesa sa che questo è un passaggio strettissimo, una rotta nel buio senza bussole né astrolabi. «Noi che viviamo nel mondo — mi dice una suora romagnola, Carla Bertari, superiora delle Maestre di Maria Addolorata missionarie in sei nazioni africane — preghiamo che Roma ricordi che la Chiesa siamo noi, questo popolo, questi religiosi, non i cardinali ». Suor Carla mi racconta di un piccolo episodio che l’ha turbata, la storia di una donna in fila con le per la Comunione davanti all’altar maggiore di San Pietro, respinta dal monsignore celebrante perché la sospettava di non essere cattolica. No, a te no, vattene. «L’Eucaristia no, ma almeno una carezza, una benedizione, a una persona che avrebbe voluto forse avvicinarsi, perché no. Cristo come l’avrebbe accolta, l’avrebbe cacciata via? La Chiesa deve cambiare».
In 15 minuti esatti l’addio dell’Ultimo Angelo è finito. Benedetto XVI volta le spallucce che neppure la talare riesce più a irrobustire e viene inghiottito dall’appartamento apostolico. Mani invisibili nel rettangolo scuro della finestra ritirano leggio e microfono. Un addetto si sporge per riavvolgere il paramento di velluto rosso appeso al davanzale, la finestra si richiude, mentre già  i centomila sfollano senza ressa, cinesi e giapponesi seguendo un pastore più banale con la bandierina del “Roma Cristiana Tour”. Prima di lasciare il vuoto opprimente di questa piazza passo a visitare ancora la cripta dove vidi tumulare Giovanni Paolo II. Il Beato Wojtyla non c’è più, i suoi resti sono tumulati nell’altare accanto alla Pietà  di Michelangelo, affiancato da enormi e incombenti statue di Pio XII e Pio XI. La cripta è un’orbita di pietra intonacata di bianca, buia e vuota. Anch’essa, come tutti a Roma, aspetta.

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