Il Balkan style dell’orientalismo
La nozione o idea di «Europa» è stata quasi completamente assimilata a qUella di Ue, e l’appartenenza a essa è il principale strumento per dare forma alla nuova geografia simbolica del continente. I paesi che già si trovano all’interno dell’Ue possono includere o escludere, mentre qUelli che si trovano «in cammino verso l’Europa», o qUelli che non hanno alcuna possibilità di diventarne membri, sono esclusi. Mitja Velikonja ha chiamato qUesta pratica discorsiva, in cui le nozioni di Europa e di europeo sono equiparate all’Ue, il «peccato originale» del nuovo eurocentrismo. «Con il pretesto della semplificazione, dell’abbreviazione o dell’eloquenza – i due termini sono semplicemente equiparati – l’unità politica ed economica si appropria del nome geografico e storico dell’intero continente. QUesto processo di ammissione nell’Ue mostra in realtà come i paesi non-europei si possano trasformare in europei». Che cosa ci possono dire questi discorsi sul carattere dell’Europa contemporanea? E come si riflette la geografia simbolica dell’Europa nell’area che chiamiamo i «Balcani occidentali», che grosso modo corrisponde allo spazio dell’ex Jugoslavia?
Per quanto sia intensa la ricerca contemporanea di un’identità europea, e per quanto sia in buona fede la dedizione a tale compito, vista da una prospettiva storica, l’idea è relativamente nuova: fino al XV secolo il nome «Europa» veniva usato solo sporadicamente e non aveva alcun peso particolare. È solo dalla metà del XV secolo, con la conquista ottomana di Costantinopoli nel 1453, che il concetto di «Europa» comincia a essere inteso come «portatore di una coscienza comune dell’Occidente» e come baluardo contro il turco ostile.
L’invenzione dell’altro
Nello stesso tempo gli «altri» europei che già esistevano hanno perduto poco o niente della loro «alterità ». L’immagine dei Balcani come un «altro» interno, o come un «semi-altro», occupa una posizione speciale in un contesto nel quale alcuni paesi europei sono membri dell’Ue, mentre altri stanno cercando di diventarlo. Da una parte, i Balcani occidentali sono visti come parte dell’Europa sia in senso geografico che storico che in termini di civiltà , ma con un bel po’ di lavoro da fare prima di diventare «europei». Dall’altra, all’interno di qUesto spazio ambiguo, il discorso sull’ammissione all’Ue dei paesi dei Balcani occidentali appare come terreno ideale per la formazione di un nuovo orientalismo europeo.
Per meglio comprendere i processi che portano a questo nuovo orientalismo, ci tornerà utile la categoria analitica di «eredità storica». Questa, al contrario della tradizione, non è il risultato della scelta consapevole di certi elementi del passato. Piuttosto, «racchiude tutto ciò che dal passato è trasmesso, che piaccia o meno». L’eredità storica non può essere cambiata, anche se può essere evocata o celata, glorificata o resa tabù, a seconda delle singole aspirazioni del momento. Il colonialismo, in quanto eredità storica delle società dell’Europa occidentale, è diventato l’eredità storica di tutta l’Ue.
Nel caso dei Balcani occidentali, la riproduzione di relazioni di tipo coloniale ha luogo attraverso la consolidata immagine dei Balcani come periferia da sorvegliare e da amministrare, bisognosa di assistenza continua da parte dei centri di potere europei. Nel discorso politico, il processo di ammissione all’Ue dei paesi balcanici occidentali non è semplicemente rappresentato come una trasformazione profonda: per portarla a termine, c’è bisogno di assistenza e di una guida lungo la strada. Un simile «tutoraggio» comporta che la regione si trovi «a un livello più basso nella scala evolutiva » e che non possa «progredire da sola, ma richiede una guida esterna per evitare di scivolare negli errori del passato». L’idea che una specie di amministrazione coloniale dei Balcani sia indispensabile per mantenere la pace e per consentire lo sviluppo dell’intero continente europeo è stata ripetutamente sostenuta in articoli, saggi e letteratura pseudo-accademica per tutti gli anni Novanta. Secondo Robert Carver, l’unica soluzione per gli interminabili disordini in Albania è «un ordine e un’industria imposti dall’Europa» e un rafforzamento dei centri di potere che caratterizzavano i tempi del colonialismo. Robert Kaplan, nel suo Balkan Ghosts, oggi citato come il testo per eccellenza sul balcanismo, affermava: «Solo l’imperialismo occidentale – anche se a pochi piacerà chiamarlo così – può adesso unire il continente europeo e salvare i Balcani dal caos». Sempre nei primi anni Novanta, Michael Ignatieff vedeva nell’assenza di grandi potenze la ragione dei conflitti nell’area, commentando che «nei Balcani le popolazioni si ritrovano senza un arbitro imperiale a cui appellarsi. Non c’è da sorprendersi dunque che, non frenate da mani più forti, si siano aggredite l’un l’altra per qUella resa finale dei conti a lungo rimandata per la presenza dell’impero». In un articolo sul Guardian, Julian Borger scriveva di quanto fosse «necessaria allo sviluppo democratico in Bosnia l’esistenza di un «regime coloniale benevolo».
Imbrogli democratici
L’approccio utilizzato dalla «comunità internazionale» per amministrare prima la Bosnia- Erzegovina e poi il Kosovo, nell’immediato dopoguerra dell’ex Jugoslavia, mostra molti tratti coloniali, come è stato evidenziato dai ricercatori che hanno studiato il discorso dei principali enti politici all’interno dell’amministrazione internazionale. La «missione della comunità internazionale» veniva esplicitamente rappresentata come una mission civilisatrice, in cui i suoi rappresentanti dovevano impiegare una serie di misure per insegnare alle nazioni balcaniche la democrazia e il rispetto della legge.
Una delle caratteristiche più importanti del discorso orientalista, particolarmente evidente nel caso dei Balcani a causa della sua natura ambivalente di «altro interiore», è l’abilità di «divorziare dalle strutture coloniali». Per questa ragione, le società che sono soggette a orientalizzazione possono interiorizzarla, reinterpretarla e modificarla ai fini delle demarcazioni e delle negoziazioni interne delle loro identità . Il concetto di «orientalismi degli orientali» nell’ex Jugoslavia, formulato da Milica Bakic-Hayden, è un’illustrazione eccellente del modo in cui le singole nazioni jugoslave hanno impiegato il meccanismo discorsivo orientalista per presentare se stesse come occidentali/europee/superiori e le altre nazioni come orientali/levantine/inferiori. Quando la Slovenia ha cercato, ad esempio, di bloccare i negoziati per l’ammissione della Croazia, Sanader ha usato la situazione per sottolineare la gerarchia tra i paesi balcanici candidati: «La Slovenia blocca la Croazia nel suo cammino verso l’Ue, ma la Croazia non farà lo stesso con la sua vicina per ripicca, e quando la Croazia siederà al tavolo europeo non si comporterà con la Serbia come la Slovenia ora si comporta con la Croazia». Il Ministro serbo degli affari esteri, Vuk Jeremic, in seguito ha detto che «la Serbia è pronta ad aiutare la Bosnia e l’Erzegovina nel loro cammino verso l’Ue».
L’appropriazione di modelli discorsivi dell’Ue senza una riflessione, un filtro o un adattamento alle circostanze locali si può attribuire alla natura delle relazioni politiche nell’Europa contemporanea: i nuovi stati membri, cioè gli ex paesi socialisti che devono «provare» la loro europeità prima di entrare nell’UE, devono continuare a farlo anche quando sono diventati membri dell’Unione. Allo stesso tempo, i vantaggi che si pensa vengano dall’adesione sono apertamente ridotti a interessi economici, sia dai vecchi che dai nuovi membri. Al momento di spiegare che cosa significhi «integrazione europea» nelle campagne pre-elettorali, i politici dei paesi balcanici candidati parlano di ciò che credono possa avere un impatto maggiore sugli elettori: standard di vita più alti, sviluppo economico più rapido, supporto finanziario dall’Ue, abolizione del visto sui documenti.
In una conferenza a Salonicco nel 1999, à‰tienne Balibar notava come «il destino dell’intera identità europea si giochi in Jugoslavia e più in generale nei Balcani». Secondo Balibar, l’Europa ha due alternative: «Da un lato, vedere nella situazione balcanica non una serpe annidata nel suo seno, uno «strascico» patologico del sottosviluppo o del comunismo, ma piuttosto un’immagine della sua stessa storia, e prendere a confrontarsi con essa e risolverla mettendosi così in gioco e trasformandosi. Solo a quel punto l’Europa ricomincerà a essere possibile. Dall’altro, rifiutare di affrontare se stessa e continuare a trattare il problema come un ostacolo esterno da superare con mezzi esterni, colonizzazione inclusa».
Compiacimenti occidentali
Uno sguardo ai discorsi europei sui Balcani occidentali mostra come l’Europa non sia diventata più possibile da quando Balibar ha espresso il suo pensiero. Si potrebbe perfino sostenere il contrario: che i mezzi usati per costituire i Balcani occidentali come un’area al di fuori dell’Europa siano diventati anche più espliciti; che l’uso dei meccanismi di sorveglianza e di colonizzazione sia caratterizzato da una mancanza di riflessione ancora più grande; e che questi mezzi siano diventati accessibili a tutti all’interno dell’Ue. I principali beneficiari economici di questa colonizzazione simbolica e discorsiva dei Balcani sono proprio quei paesi che più di frequente fanno uso di questi meccanismi: gli stati membri localizzati lungo il confine sud-orientale dell’Ue.
Per quanto riguarda l’Europa nel suo insieme, la colonizzazione le consente di continuare a cullare un’immagine compiaciuta di sé, scaricando su chi sta fuori tutto ciò che può minacciare quest’immagine. Un’Europa di questo tipo non è capace di riflettere su se stessa. In questo tipo di Europa, i media riprendono le dichiarazioni dei politici riecheggiando i modelli che hanno segnato i periodi più bui della stessa storia europea. È difficile non provare la spiacevole sensazione di una ripetizione, anche se è ben radicata l’opinione che la ripetizione del passato è un problema solo dei popoli balcanici e non anche degli europei.
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SCAFFALI
Un linguaggio propedeutico al controllo
Il testo pubblicato è tratto dall’ultimo numero della rivista «Lettera internazionale» dedicato in gran parte ai Balcani. È a firma di Tanja Petrovic, linguista, antropologa e Senior Research Associate presso il Centro di ricerca scientifica dell’Accademia slovena delle Arti e delle Scienze di Lubiana. Si occupa del rapporto tra fenomeni linguistici, sociali e culturali nei Balcani in relazione all’ideologia e alla memoria. È autrice di numerosi articoli e saggi sulle identità linguistiche e culturali e sui processi delle precedenti società jugoslave. I suoi libri più recenti sono: «YUrope: Yugoslav Legacy and Politics of the Future in post-Yugoslav Societies» (Belgrado, Fabrika knjiga, 2012); e «A Long Way Home: Representations of the Western Balkans in Political and Media Discourses» (Lubiana, Peace Institute). Oltre al contributo di Tanja Petrovic la rivista propone articoli di Marija Todorova, Slavenka Drakulic, Alessandro Leogrande, Fatos Lubonja, Raymond Rehnicer, Enrica Lisciani-Petrini, Predrag Matvejevic.
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