I rischi del localismo agitano gli intellettuali
MILANO — Vari gradi di preoccupazione: il dilagare di un federalismo «divisivo» anziché «unitivo», il diffondersi di particolarismi non solo al Nord ma negli ottomila Comuni d’Italia, la totale ingestibilità del Paese se non si mette mano alla Costituzione. Il quadro è fosco (ma non per tutti): le parole di Piero Bassetti pubblicate sul Corriere di ieri sulle insidie del localismo, soprattutto in caso di vittoria di Roberto Maroni in Lombardia, riaprono la discussione sulla «questione settentrionale». Coinvolgendo sociologi, politologi, costituzionalisti, storici.
Regionalismo sì, ma guai al secessionismo. I timori di Bassetti — l’isolamento di Piemonte, Lombardia, Veneto — sono condivisi da Mauro Magatti, docente di Psicologia alla Cattolica di Milano: «Il rischio è reale. Primo, perché l’alleanza tra le tre regioni del Nord sotto il segno della Lega potrebbe creare squilibri profondi nel resto d’Italia. Secondo, perché la campagna elettorale di Maroni, tutta in chiave rivendicativa, va a stimolare proprio le aspettative separatiste amplificate dalla crisi». La tentazione c’è, la sfiducia dell’elettorato anche. In un contesto economico così difficile, è chiaro che temi di più ampio respiro suscitino scarso interesse. E lo scenario possibile è questo: crisi in aumento, una Lega fortissima al Nord che dialoga (poco e male) con un governo fragile a Roma, la locomotiva che va per conto suo e gioca la sua partita. «Per scongiurare tutto questo — conclude Magatti — serve un federalismo che sappia unire».
Di possibili esplosioni — «siamo seduti su una polveriera» — parla Luca Antonini, docente di Diritto costituzionale a Padova, autore di «Federalismo all’italiana» (Marsilio), nonché presidente della Commissione per l’attuazione del federalismo fiscale. «L’assetto costituzionale — dice — è ingestibile: venti Regioni, ottomila Comuni, una burocrazia mastodontica, uno contro l’altro e i virtuosi sempre penalizzati. Se non si mette mano alla parte organizzativa dello Stato con una riforma costituzionale condivisa, le tensioni saranno così forti che qualcuno tenterà di andare da solo». Previsione: «O puntiamo a un federalismo tedesco con una vera funzione di coordinamento dello Stato, o la competitività del Paese è a rischio». Il nodo, dunque, «non è tanto la Lega, ma il sistema che d’ora in poi mostrerà sempre di più le sue lacune: se ogni legge statale o regionale viene impugnata dalla Corte costituzionale, non c’è più certezza del diritto. Purtroppo in campagna elettorale nessuno ne ha fatto cenno».
Chi sembra poco preoccupato è Luca Ricolfi, ordinario di Psicometria a Torino: «Questa operazione del Grande Nord — precisa — sarebbe anche desiderabile, ma la classe dirigente della Lega non ha le capacità per portarla a compimento. Insomma, non vedo grossi rischi. Piuttosto, vedo una manica di incapaci: se al posto di Cota e Maroni ci fossero Miglio e Cacciari, qualcosa di sensato si farebbe. Il federalismo? Solo nominale. Purtroppo la Lega, come Berlusconi, lo ha promesso senza attuarlo: l’idea era ottima, ma è stata tradita».
Ne fa più una questione storica — ovviamente — il contemporaneista Enrico Decleva, ex rettore della Statale di Milano: «L’idea che possa nascere una Repubblica del Nord da regioni tra loro assai poco omogenee mi sembra abbastanza priva di prospettive. Quello che però spaventa, in questa stagione, è la crisi della statualità : il rischio più immediato è che si inneschi una ulteriore conflittualità interna». Eppure lo studio del passato impone una certa calma: «Fermo restando che l’Italia si è fatta perché c’era un quadro internazionale favorevole (la Francia di Napoleone III) — conclude Decleva — di certo non si disfa perché tre presidenti di regione decidono di andare da soli».
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