Hessel. Il maestro del pensiero ribelle re degli indignati a novant’anni

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I librai telefonavano alla minuscola casa editrice a conduzione famigliare «Indigène» di Montpellier per sollecitare nuove edizioni: Sylvie Crossman e Jean-Pierre Barou si guardavano stupiti, poi si sono organizzati. Le ristampe hanno finito per arrivare, Indignatevi! è stato venduto in oltre quattro milioni di copie nel mondo. Il suo autore è diventato un eroe.
La scorsa notte, a 95 anni, Stéphane Hessel è morto nella sua casa di Montparnasse, accudito dalla moglie Christiane, di dieci anni più giovane. «È un grande amore, insieme viaggiamo e teniamo lontano il malumore — aveva detto Hessel durante un’intervista al “Corriere” —. Cerco ancora di impressionarla, e il modo migliore per riuscirci è provare a comportarmi come se non fossi così vecchio».
Con questo metodo, oltre a riconquistare ogni giorno l’amore di Christiane, negli ultimi anni della sua vita l’ambasciatore di Francia Hessel si è trasformato in un’icona globale, l’ispiratore di milioni di «indignati» in tutto il mondo, dall’Europa agli Stati Uniti all’America Latina. È vero, il suo era un libriccino, da più parti poi criticato perché «banale», «ideologico», «la bibbia delle anime belle». Ma Hessel, che non pretendeva di aver scritto un trattato epocale, ha saputo cogliere e anticipare almeno una parte dello spirito del tempo: la rinnovata voglia di partecipare, di non arrendersi, di credere negli ideali, di ribellarsi.
Lo avesse scritto un altro, Indignatevi!, molte delle 8.000 copie sarebbero probabilmente rimaste invendute. Ma Stéphane Hessel aveva una storia personale, e un carisma da eterno ragazzo entusiasta, che rendevano ogni frase più affascinante: quel testo è il lascito spirituale di uno straordinario Zelig del XX secolo, Zelig non perché trasformista, ma perché presente nei momenti importanti, talvolta decisivi della sua era.
Nasce a Berlino il 20 ottobre 1917, quando ancora i suoi due Paesi si stanno massacrando. Sua madre è la pittrice Helen Grund, che ispirò allo scrittore Henri-Pierre Roché e poi a Franà§ois Truffaut la storia di Jules e Jim. Nel film, Jeanne Moreau interpreta la parte della mamma di Hessel. Il più toccante dei ménage à  trois è raccontato fedelmente, tranne che per l’epilogo (nessun suicidio nella vita reale) e il sesso del bambino. «Ah, tu sei la figlia di Jeanne Moreau», dicevano a Hessel, e lui si seccava molto.
«Mia madre — raccontava Hessel — era di famiglia prussiana, mio padre ebreo berlinese, ma entrambi adoravano Parigi. Siamo arrivati quando io avevo sette anni. Mi definisco di sangue tedesco e di cultura francese». A Parigi gli Hessel frequentano Chagall, Picasso, Calder e Duchamp. Stéphane prende la maturità  a 15 anni — «Riuscii a sorprendere mia madre, e non era facile» —, nel 1937 acquista la cittadinanza francese e due anni dopo entra all’à‰cole normale supérieure.
Dopo l’invasione nazista, il giovane Hessel raggiunge il generale de Gaulle a Londra, poi torna clandestinamente in Francia in vista dello sbarco in Normandia, ma viene catturato dai tedeschi che occupano Parigi. Torturato nelle mansarde al numero 84 di avenue Foch, riuscirà  a non parlare. Viene deportato nel lager di Buchenwald, poi a Dora e Bergen-Belsen ma — ancora una volta — Stéphane Hessel resiste. Finita la guerra, cominciata la carriera diplomatica, lo troviamo a New York, all’Onu: nel 1948 è uno dei redattori della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Il Quai d’Orsay poi lo manda a Saigon e Algeri, nel cuore della drammatica decolonizzazione francese. «Il periodo più bello è stato in Algeria, dal 1964 al 1969. De Gaulle era riuscito a porre fine alla guerra, e bisognava aiutare gli algerini a uscire dal periodo coloniale. C’era uno spirito di collaborazione, prima che il presidente Boumédienne rovinasse tutto con il nazionalismo e l’arabizzazione forzata».
Nel 1996 Stéphane Hessel partecipa alla mobilitazione in difesa dei 314 «sans papiers» barricati nella chiesa di Saint Bernard. All’epoca Emmanuelle Béart era il volto noto, ma Hessel il vero portavoce degli immigrati.
Gli ultimi anni sono quelli della sfida ecologista accanto a Daniel-Cohn Bendit, e dei frequenti viaggi in Cisgiordania e soprattutto a Gaza, che gli valgono molti attacchi della comunità  ebraica. «Sono ebreo per parte di padre — si difendeva Hessel — e ho combattuto i nazisti, non sono particolarmente sensibile all’accusa di antisemitismo. Rivendico il diritto di indignarmi per le azioni di uno Stato, che sia Israele o qualsiasi altro. Questo non significa essere antisionisti o antisemiti, è una sciocchezza. Due Stati, uno ebraico e l’altro palestinese, devono convivere. Lo spero con tutte le mie forze». Ma il suo appoggio alla Gaza Flotilla e gli incontri con il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, hanno provocato l’inimicizia del Crif (Conseil représentatif des institutions juives de France) che due anni fa impedì a Hessel di tenere un dibattito nella sua à‰cole normale e che ieri, a poche ore dalla notizia della morte, si è espresso con durezza: «Il fatto che Stéphane Hessel sia diventato un esempio — scrive il presidente Richard Prasquier — la dice lunga sullo smarrimento intellettuale della nostra società . Stéphane Hessel fu innanzitutto un maà®tre à  ne pas penser, un cattivo maestro. Il lavoro di decostruzione di Hessel verrà  effettuato».
Ridurre i 95 anni della eccezionale vita del resistente Stéphane Hessel alla pur importante questione israelo-palestinese sembra tuttavia ingeneroso. Ieri il presidente francese Franà§ois Hollande ha reso un non rituale omaggio all’«umanista appassionato che si è dedicato a tutte le lotte in difesa dei diritti umani, e che ci lascia una lezione, quella di non rassegnarsi ad alcuna ingiustizia».
Al «Corriere», due anni fa, Hessel aveva confidato di non volersi arrendere neppure alla fine. «Non sono religioso, no, le religioni portano le guerre. Ma aspetto la mia amica morte, che ho sfiorato tante volte, con fiducia. Si aprirà  una nuova dimensione, credo».

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Cohn-Bendit: un esempio di lucidità 

PARIGI — L’ultimo dibattito Stéphane Hessel lo ha affrontato il 14 febbraio, a casa sua, con l’amico Daniel Cohn-Bendit per il Nouvel Observateur. «Ci ha ricevuti in pigiama — racconta l’eurodeputato —, l’occhio ancora brillante e il solito grande piacere di discutere. Ma dopo il colloquio mi ha detto che ormai si sentiva stanco, il corpo lo stava abbandonando. Ecco perché non sono sorpreso dalla sua morte. Era molto lucido. Ha avuto la fortuna di essere accompagnato fino all’ultimo dalla sua energia e intelligenza».
Il colloquio verteva sul saggio del «senza patria senza partito» Cohn-Bendit, «Pour supprimer les partis politiques!?»: Hessel si è trovato d’accordo nella sfiducia verso i partiti come forme ancora efficaci di aggregazione politica, e ha criticato le Nazioni Unite presso cui ha lavorato nel dopoguerra. A livello globale, «abbiamo un’organizzazione mondiale, l’Onu, piena di debolezze e vigliaccherie che dipendono dal suo essere espressione dei singoli governi. Quando si vuole far lavorare insieme 192 Paesi, due terzi dei quali non democratici, le difficoltà  sono insormontabili». A livello nazionale, «i veri dibattiti nascono al di fuori dei partiti — ha detto Hessel —: per esempio tramite il nostro collettivo Roosevelt 2012, con l’economista Paul Larrouturou. Quel che Dany e io rimproveriamo ai partiti tradizionali, è soprattutto il fatto di essere intrappolati nella loro lunga storia, nei loro passati rispettivi. Non sono capaci di guardare verso il futuro».


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