Generazione di sfruttati “made in China”: il lato oscuro degli smartphone

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L’azienda, con sede centrale nella metropoli cinese di Chengdu, è entrata nelle cronache dapprima per una serie di suicidi a catena tra i suoi dipendenti a metà  2010, e poi per le condizioni di lavoro al limite della schiavitù, portate alla conoscenza del grande pubblico da varie inchieste giornalistiche e da diversi gruppi e movimenti per i diritti dei lavoratori.

Come il China Labor Watch, associazione fondata nel 2000 a New York dall’attivista cinese Li Qiang, che da oltre 10 anni non manca di mettere sotto torchio i giganti aziendali, compresi i grandi signori dell’elettronica: quasi tutti, infatti, si servono della Foxconn per assicurarsi i propri prodotti assemblati e finiti al minor tempo e costo possibile. L’ultima, in ordine di tempo, a finire nel mirino del gruppo è stata la Heg Electronics, succursale cinese della Samsung, l’acerrimo rivale della Apple per quanto riguarda tablet e telefonini. CLW non usa mezzi termini, e accusa l’azienda di trattare i lavoratori “come bestie”.

“Oltre cento ore di straordinari per mese – si legge nel report di 123 pagine – spesso non pagati, operai costretti a turni di 11 o addirittura 12 ore di fila in piedi, discriminazioni di sesso e di età , mancanza degli standard minimi di sicurezza sul lavoro, maltrattamenti fisici e verbali, e impiego di manodopera minorile”. Sebbene la Samsung abbia negato categoricamente quest’ultima violazione, l’associazione ha scovato almeno tre ragazze sotto i 16 anni, il limite minimo legale in Cina, nella fabbrica chiamata HTNS, assunte attraverso documenti d’identità  falsi o manipolati. “I minori vengano trattati al pari degli adulti e costretti a 13 ore di lavoro al giorno, con gli straordinari naturalmente pagati al di sotto dei limiti standard – spiega Li Qiang – Ed è una prova di quanto il sistema di verifica della Samsung, che pure ha lanciato un programma di ispezioni in 250 fabbriche, sia inefficace”.

Ma oltre Samsung, nemmeno Apple si salva dagli scandali, e a nulla sono valse le parole di Steve Jobs che aveva decantato “le mense, i cinema e le piscine” delle proprie fabbriche Foxconn in Cina. Che pure ci sono, ma a che prezzo? Basti pensare che la maggior parte degli operai di stanza a Taiwan, fino a poco tempo fa non aveva diritto nemmeno a uno sgabello per potersi sedere durante il lavoro. “I manager di questa fabbrica da 164mila operai – scriveva il New York Times due mesi fa – pensano che il comfort favorisca la pigrizia”.

Ancora, China Labor Watch denuncia un massiccio uso del lavoro “interinale”, in cui i dipendenti sono trattati perfino peggio di quelli assunti direttamente dalla Foxconn, e dei tirocinanti, spesso a titolo gratuito. L’azienda, infatti, stipula il contratto direttamente con l’università , in genere senza fornirne alcuna copia agli studenti. “Formalmente sono lì per imparare, non per lavorare – spiega Li Qiang – ma finisce che, se questi ragazzi non lavorano come degli operai normali, la scuola li minaccia dicendo loro che non si potranno diplomare o laureare. Così, sono costretti ad accettare, mentre le scuole prendono tangenti dalle aziende”.

Un altro rapporto, pubblicato stavolta dal gruppo per i diritti dei lavoratori cinesi del Students and Scholars Against Corporate Misbehavior (SACOM), parla anche di umiliazioni a cui gli operai “indisciplinati” della Foxconn sarebbero sottoposti: si va dalla pulizia dei bagni alla scrittura e lettura ad alta voce di imbarazzanti “lettere-confessione”, fino agli insulti, alle pressioni psicologiche e alle flessioni. Anche qui si parla dello sgabello come di una “conquista recente”, ma attenzione: gli operai, infatti, vengono istruiti a stare seduti su un terzo della sedia per “essere più agili durante il lavoro”.

Le condizioni di vita nei dormitori, poi, sono descritte da tutte le associazioni come “anguste e sgradevoli”: tre cameroni condivisi in genere da 20-30 operai impilati su file di letti a castello. L’uso di apparecchi elettrici come asciugacapelli, bollitori e laptop è vietata, e i dipendenti che violano le regole rischiano di avere i loro oggetti confiscati fino alla fine della loro permanenza nei palazzi della società . Inoltre, sono caldamente invitati a non discutere del proprio lavoro con giornalisti o ricercatori, a meno che non abbiano il permesso dalle autorità  di vigilanza.

Dopo gli scandali che l’hanno vista coinvolta, la Apple ha chiesto alla Fair Labor Association (FLA), non profit internazionale per i diritti del lavoro, di effettuare dei controlli nelle fabbriche dove la situazione risultava più critica. Ed è così che, alla fine, Foxconn ha dovuto annunciare una serie di riforme volte a ripulire la propria immagine (ma soprattutto quella delle super-aziende committenti). Tra le principali, quella secondo cui, a partire da luglio 2013, a nessun dipendente sarà  permesso di lavorare più di una media di 49 ore settimanali. Che poi sarebbe il limite fissato dalla legge cinese (in precedenza, alcuni dipendenti si sono avvicinati anche a 100 ore a settimana). “Il problema – commentano le associazioni – è che se contestualmente non si alzano i salari, i lavoratori stessi si mettono di traverso riguardo a questi diritti, dato che al momento devono e vogliono fare più straordinari possibile per assicurarsi uno stipendio dignitoso”.

Un’apertura ancora più recente, poi, riguarda la possibilità , per i lavoratori della Foxconn, di costituire un “vero” sindacato all’interno delle proprie fabbriche. Peccato che, chi conosce bene la situazione, si dice sicuro che i lavoratori avranno poca o nessuna influenza sui comitati che gestiranno il sindacato, il quale sarà  costituito per la maggior parte da uomini della direzione aziendale. Se a questo si aggiunge che in Cina i sindacati indipendenti sono tecnicamente proibiti, si capisce come siano in molti a considerarla, più che altro, un’operazione di “social-washing”, per permettere alle grandi aziende committenti (che spesso fanno finta di accorgersi dei problemi solo quando scoppia lo scandalo) di ricostruirsi un’immagine più etica e umana agli occhi dell’opinione pubblica internazionale.

Anna Toro


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