Garantire il welfare a chi ne ha bisogno

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Nel contesto di un piano di riforma generale del welfare naturalmente si può fare di più e soprattutto meglio. Partiamo dai dati, limitandoci per concretezza a sanità , istruzione, e giustizia, i più importanti servizi pubblici, anche in termini di spesa. Da un punto di vista aggregato l’Italia (dati Eurostat 2010) spende il 7.6% del Pil per la sanità  e il 4.5% per l’istruzione.
è essenzialmente in linea con l’Europa a 15, un po’ più della Germania (7.2 e 4.3%, rispettivamente) e meno della Francia (8 e 6%). Per la giustizia (dati Cepej 2012 relativi al 2010) l’Italia spende sostanzialmente più della Francia procapite (70 Euro contro 56; il Cepej non fornisce dati comparabili per la Germania).
Le differenze rispetto a Germania e Francia stanno nella qualità  dei servizi pubblici che riceviamo, a parità  di spesa. Riguardo alla scuola, l’Italia è significativamente sotto la media (e sotto Francia e Germania) in tutte le materie (lettura, matematica, scienze) nei test Pisa (Ocse) del 2009. Riguardo alla sanità  invece l’Italia fa meglio (dati Ocse, Health at a Glance, 2012) rispetto all’Europa, anche se non come Francia e Germania. La situazione della giustizia, invece, è drammatica rispetto a tutti gli indicatori, specie quelli riguardanti i tempi, nel civile come nel penale (dati Cepej).
Se spendiamo come la Germania ma riceviamo servizi molto peggiori, è come dire che il “prezzo” che paghiamo per unità  di qualità  è molto più elevato di quello pagato dai tedeschi. Questo “prezzo” è in generale il risultato di una combinazione complessa di fattori istituzionali ed anche di norme sociali e attitudini e predisposizioni culturali. Purtroppo questi fattori e predisposizioni sono difficilmente controllabili. Supponiamo per un istante che essi siano fissi. Ne risulterebbe che non è appropriato per l’Italia avere la stessa distribuzione dei rapporti spesa/Pil prevalenti in Germania: l’Italia, allo stesso “prezzo” ottiene servizi ben inferiori e quindi è bene che ne acquisti una quantità  inferiore. Inoltre, poiché una larga parte dell’imposizione è evasa in Italia, il costo economico di ogni livello di spesa/Pil è più elevato perché mal distribuito tra i contribuenti. Anche per questa ragione è quindi razionale spendere meno.
Naturalmente, né la struttura istituzionale del paese, né la sua capacità  di contenere l’evasione sono fisse nel tempo, ma è ragionevole pensare che entrambe cambino con grande difficoltà  e molto lentamente. Anche i recenti successi nella lotta all’evasione, ad esempio, sono stati ottenuti ad un costo molto elevato per i contribuenti onesti, sottoposti a limitazioni degli scambi in contante, a pratiche spesso vessatorie da parte dello Stato, come il rovesciamento dell’onere della prova, a tasse ingiuste ma più difficili da evadere, come l’Irap.
A mio parere è quindi desiderabile che l’Italia si ponga come obiettivo un rapporto spesa pubblica/Pil sostanzialmente inferiore a quello di Francia e Germania. Questo significa però optare per un sistema di welfare meno comprensivo di quello attuale. Farlo senza ridurre l’accesso delle classi meno agiate ai servizi pubblici è possibile, agendo con una politica redistributiva sulla spesa, in cui i servizi pubblici gratuiti o fortemente sussidiati siano offerti solo o soprattutto ai contribuenti dal reddito più basso (gli economisti riferiscono a questo come “targeting” della spesa pubblica).
Ma la questione è ancora più complessa in Italia, a causa della notevolissima disparità  tra regioni nella qualità  dei servizi pubblici offerti. Sia nei test Pisa che nei vari indicatori di qualità  del servizio sanitario e della giustizia le differenze tra Nord e Sud del paese sono drammatiche (per quanto riguarda scuola e sanità , ma non giustizia, il Nord è in linea con i paesi del Nord Europa). Questi risultati sono solo in parte spiegati dalle diverse condizioni economiche e sociali e soprattutto non corrispondono affatto a differenze nella spesa pro-capite che, se non omogenea, non varia certo in modo comparabile alla qualità  dei servizi.
È chiaro allora che il targeting non può essere solo riferito al reddito e che si rende necessaria una qualche forma di collegamento diretto tra qualità  e spesa. Diventa fondamentale cioè costituire dei meccanismi che permettano allo Stato centrale di pagare un “prezzo” per i servizi pubblici offerti a livello locale commisurato alla qualità  dei servizi che in ultima istanza i cittadini ricevono. Nel contesto di un federalismo fiscale in cui i centri di spesa pubblica locale siano responsabili della raccolta fiscale con cui finanziare la spesa stessa, sarebbe bene entro certi limiti (cioè garantendo una serie ben definita di servizi pubblici essenziali) permettere anche una differenziazione dei servizi pubblici offerti. In questo modo quelle regioni in cui il “prezzo” per unita’ di qualità  risulti elevato potrebbero autonomamente limitarne l’offerta (o esercitare un maggior targeting al reddito) avendone in cambio minore spesa e soprattutto minori tasse.
Per quanto ovviamente queste siano proposte di non facile attuazione e su cui legittimamente molti saranno in disaccordo, un confronto razionale e attento sul futuro del welfare in Italia è inevitabile. Lasciare gattopardescamente le cose come stanno non può che accentuare il declino del paese, costretto a finanziare a mezzo di una inefficiente imposizione una inefficiente spesa pubblica la cui qualità  varia in modo inaccettabile da Nord a Sud.


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