by Sergio Segio | 22 Febbraio 2013 7:30
Il calo di Wall Street, comunque ridotto rispetto a quello registrato dalle Borse europee, ha varie origini. Da giorni molti analisti pensavano che fosse necessaria una correzione di un mercato cresciuto troppo (l’indice Dow Jones salito giorni fa oltre quota 14 mila, prima di ripiegare) nonostante una situazione economica interna che rimane fragile, mentre l’Europa, pur con la sua moneta non più sull’orlo del baratro, continua a produrre notizie allarmanti: dal peggioramento del Pil non solo nel nostro Paese ma anche nelle principali economie del Continente, Germania e Francia in testa, alle elezioni italiane che — temono molti operatori e anche gli analisti di «Standard & Poor’s» — rischiano di produrre di nuovo una situazione di ingovernabilità e instabilità .
Negli Stati Uniti a tutto questo si sono aggiunte, nelle ultime 48 ore, le notizie negative sulla congiuntura (come il forte calo dell’indice della produzione manifatturiera nel Nord Est, dalla Pennsylvania all’Ohio) e l’impennata delle richieste di sussidi di disoccupazione. Ma il vero detonatore del malessere latente sulle due sponde dell’Atlantico sembra essere stato il cambio di atteggiamento della Fed il cui impegno «a oltranza» in una politica a sostegno dell’economia Usa, anche a costo di mettere a repentaglio la solidità dell’Istituto di emissione, non va più dato per scontato.
Esauriti da tempo gli stimoli fiscali del governo Obama e coi repubblicani che al Congresso parlano solo di tagli di spesa, l’unico sostegno a un’economia americana in ripresa ma ancora convalescente viene oggi dalla Fed che col suo terzo «round» di interventi, il cosiddetto QE3, immette ogni mese nell’economia 85 miliardi di dollari attraverso il riacquisto di titoli del Tesoro e obbligazioni immobiliari: interventi miranti ad abbassare il costo del denaro anche a lungo termine (quello a breve è già prossimo allo zero).
Alcuni membri del direttorio avevano cercato di opporsi temendo effetti negativi sull’economia e una destabilizzazione dell’Istituto il cui bilancio è già passato dagli 800 miliardi del 2007, prima dello «tsunami» finanziario, ai 3.100 miliardi attuali.
Ma il temuto impatto inflazionistico di queste misure fin qui non c’è stato. Ben Bernanke aveva, così, isolato i dissidenti e spinto l’Istituto ad annunciare che la nuova fase di interventi a sostegno dell’economia andrà avanti fino a quando il numero dei disoccupati non scenderà sotto il 6%. Praticamente a oltranza, visto che da parecchi mesi quell’indice è quasi fermo attorno quota 7,9.
Ma adesso la pubblicazione delle minute del dibattito interno svoltosi nella Fed il mese scorso fa emergere che l’area di dissenso si è allargata: crescono i timori di destabilizzazione della Banca mentre le massicce emissioni di «junk bond» fatte da molti operatori fanno temere che il denaro troppo a buon mercato stia alimentando nuove patologie.
Per ora la linea resta invariata, ma tra un mese la Fed ridiscuterà tutto. E già martedì, davanti al Congresso, Bernanke potrebbe dare qualche indicazione su eventuali correzioni di rotta.
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