Dopo i giornali tocca ai social network L’ombra cinese dietro i cyber attacchi

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PECHINO — Di sicuro c’è che la tecnologia online e alcuni grandi gruppi editoriali americani sono sotto attacco. Ieri Twitter ha denunciato che una cyber-incursione lo ha derubato dei dati di almeno 250 mila clienti: username, indirizzi email e password. Il gigante dei social media che ha come simbolo un uccellino cinguettante assicura di aver avvisato con email le vittime, ha disattivato le password violate e ha precisato che 250 mila account sono una percentuale statisticamente poco significativa rispetto ai suoi oltre 200 milioni di twittatori attivi. Ma da San Francisco il direttore della sicurezza ha anche ammesso che il fatto resta grave perché «questo non è lavoro da dilettanti e non crediamo che si sia trattato di un incidente isolato: gli hacker hanno agito in modo molto sofisticato, con attacchi simili a quelli contro altre società  e organizzazioni».
Il capo dei detective di Twitter non ha fatto alcun nome, ma l’allusione al caso del New York Times e del Wall Street Journal, che hanno accusato hacker cinesi di essersi infiltrati nei loro sistemi informatici, apre degli interrogativi.
La Cina è sospettata da anni di aver montato una campagna di cyber-spionaggio molto aggressiva, per cercare di trafugare informazioni classificate, segreti aziendali o per intimidire e paralizzare chi diffonde critiche sul web. Eric Schmidt, il boss di Google, sostiene che lo Stato cinese appoggia il crimine online per motivi economici e politici e rappresenta una minaccia mondiale.
Il sito del New York Times è ancora oscurato per i navigatori cinesi, dopo la pubblicazione di un paio di servizi sulla ricchezza che sarebbe stata ammassata dalla famiglia del premier uscente Wen Jiabao. Il governo di Pechino ha replicato che le accuse sono senza fondamento e non professionali, perché nessuno ha potuto provare chi sono davvero gli hacker e sostiene che anche la Cina è vittima delle aggressioni cibernetiche.
In questo tam tam di sospetti e indizi, restano le accuse dure del New York Times che medita di portare il governo cinese di fronte all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) per violazione degli accordi sul libero scambio. E resta il discorso che il signor Lu Wei, capo della propaganda a Pechino, ha rivolto un paio di settimane fa ai «lavoratori» della sua sezione per invitarli ad accrescere la loro attività  online e immergersi nella grande rivoluzione dei social media, per «diffondere energia positiva» nella Rete. A questi «operatori della propaganda» è stato ordinato di «depurare» Internet dalle «informazioni dannose o volgari». Il signor Lu si rivolgeva a 60 mila dipendenti ufficiali della propaganda pechinese e altri due milioni di simpatizzanti e collaboratori.
Ma davvero la potenza cinese che ha già  messo la freccia di sorpasso sull’economia americana ha bisogno di far guerra a un giornale come il New York Times? Se è così forte, perché è anche così nervosa? Per gli esperti l’eventualità  di una sfida aperta e forte al regime è tra «molto remota e non esistente»: i cinesi normali stanno accrescendo il loro tenore di vita e 300 milioni di persone si considerano dirette beneficiarie della politica economica del Partito comunista.
Eppure il potere non si sente tranquillo e interviene anche in modo surreale, come quando a novembre, durante il gran conclave del partito, ha ordinato di togliere le manopole dai finestrini dei taxi di Pechino: per evitare che qualcuno potesse lanciare volantini.
Tornando al furto di Twitter, i dati sottratti potrebbero servire a infiltrarsi tra i twittatori e tenere sotto controllo chi diffonde notizie sgradite. Ma più proficuamente, dicono gli uomini della security online, gli hacker potrebbero usare gli account come grimaldello per aprire un altro servizio: molti di noi hanno la stessa password per Twitter e il conto in banca.


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