Dalla Chiesa, l’ultimo mistero “Un ufficiale dell’Arma trafugò le sue carte segrete”

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PALERMO — È destinata ad allungarsi la lista delle prove trafugate dopo gli omicidi eccellenti di Palermo. Da qualche settimana, la Procura indaga sulla scomparsa di una valigetta di pelle marrone appartenuta al generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il prefetto di Palermo assassinato dai killer di Cosa nostra il 3 settembre 1983. Di quella borsa, nessun investigatore si era mai interessato: subito dopo l’eccidio di via Carini, il pool di Falcone e Borsellino si era concentrato su un altro mistero legato a Dalla Chiesa, la sparizione di alcune carte dalla cassaforte della residenza privata del prefetto. Poi, all’improvviso, nel settembre scorso, è stato recapitato un
anonimo molto ben informato a casa del sostituto procuratore Nino Di Matteo, uno dei pm che indaga sulla trattativa mafia-Stato: in dodici pagine non si parla solo delle carte che alcuni carabinieri del Ros avrebbero portato via dal covo di Totò Riina, nel 1993, ma anche del mistero della borsa di Dalla Chiesa.
Ecco cosa scrive l’anonimo nelle prime righe del testo, che ha ribattezzato “protocollo fantasma”: «Un ufficiale dei carabinieri in servizio a Palermo si preoccupa di trafugare la valigetta di pelle marrone che conteneva documenti scottanti, soprattutto nomi scottanti riguardanti indagini che Dalla Chiesa sta cercando di svolgere da solo».
Il figlio di Dalla Chiesa, Nando, la ricorda bene quella borsa: «Mio padre la portava sempre con sé», dice a Repubblica: «Era una borsa senza manico, con la cerniera. Dopo l’omicidio, c’eravamo chiesti che fine avesse fatto. In tutti questi anni abbiamo pensato che fosse andata persa, nel trambusto di quei giorni. Evidentemente, non era così». Le parole del professore Dalla Chiesa confermano che l’ultimo anonimo di Palermo è davvero ben informato, perché di quella borsa nessuno ha mai parlato in inchieste giudiziarie o giornalistiche.
L’anonimo racconta anche di un ufficio riservato che il generale Dalla Chiesa avrebbe avuto alla caserma di piazza Verdi, sede del comando provinciale dei carabinieri: «Era ubicato di fronte al nucleo comando del Rono», scrive, sottolineando che in quella stanza c’erano «faldoni, appunti e messaggi» riservati. Tutte carte che Dalla Chiesa avrebbe iniziato a raccogliere dopo il suo ritorno in Sicilia come prefetto.
Adesso, i pm di Palermo vogliono dare un nome a chi ha scritto quell’anonimo, e per questa ragione negli ultimi giorni hanno chiesto alla Dia di convocare una decina fra ufficiali e sottufficiali dell’Arma citati nelle dodici pagine. A condurre le audizioni è un pool, di cui fanno parte i sostituti Di Matteo, Sava, Del Bene, Tartaglia e l’aggiunto Teresi. I magistrati sono sempre più convinti che l’anonimo sia stato scritto proprio da un carabiniere. E sperano che alla fine si faccia avanti.
Anche l’allora giudice istruttore Giovanni Falcone cercava notizie su alcune indagini riservate svolte da Dalla Chiesa negli ultimi mesi della sua vita. Agli atti del maxi processo è rimasta una lettera indirizzata al «comandante generale dell’Arma dei carabinieri » e per conoscenza «all’onorevole ministro della Difesa» e «al ministro degli Interni». Protocollo riservato “n. 10/6 Ris”. Il 20 maggio ‘83, Falcone convocò anche l’allora comandante generale Lorenzo Valditara, per ribadirgli la domanda. L’alto ufficiale disse che Dalla Chiesa era rimasto in contatto con i pm di Bologna, che indagavano sulla strage alla stazione. Quella domanda di Falcone è tornata di attualità .


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