Dai titoli tossici ai debiti sovrani la madre di tutti i conflitti d’interesse

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NEW YORK — Il giustiziere della crisi globale del 2008: è così che Barack Obama vuole passare alla storia? L’offensiva lanciata contro Standard & Poor’s ha quasi l’aspetto di una catarsi finale. Trascinare i Signori dei rating in tribunale con richieste di danni per 5 miliardi di dollari, vuol dire risalire alle origini di questa crisi, aggredire la madre di tutti i conflitti d’interessi. Dal ruolo di complici, sodali e apprendisti stregoni della finanza tossica, fino a quelli di “arbitri dei governi” grazie alle pagelle sulla solvibilità  degli Stati sovrani, le agenzie di rating sono investite di una potenza inaudita. E sempre più intollerabile agli occhi delle opinioni pubbliche, dei governi, talvolta perfino delle banche centrali. In una delle convulsioni di crisi dell’eurozona, il 15 gennaio 2012 anche il presidente della Bce Mario Draghi aveva auspicato per le agenzie di rating «un potere molto più limitato di quello che hanno attualmente ». Obama ci prova. Attirandosi ogni sorta di sospetti e dietrologie: che voglia far pagare a S&P l’affronto del downgrading degli Stati Uniti, o gli appoggi al repubblicano Mitt Romney. I governi possono avere dei secondi fini, incluso quello di liberarsi da vigilanze scomode. Ciò non toglie che in questo caso i “vigilantes” dei rating non sono degli insospettabili. Anzi: hanno lasciato le loro impronte digitali su tutti gli episodi-chiave della grande crisi.
Le hanno definite «il più strano ibrido del capitalismo finanziario»: sono società  private, svolgono la loro attività  a scopo di profitto, ma di fatto occupano un ruolo di regolatrici dei mercati. Questo accade perché vaste categorie di investitori istituzionali — tanto più se tenuti a comportamenti prudenti, come i fondi pensione — devono per legge o per statuto acquistare solo titoli che abbiano un rating o “voto” elevato a tutela del loro valore e della loro solvibilità .
Il “triopolio Usa” composto da Standard&Poor’s che è la leader, seguita da Moody’s e Fitch (tutte insieme producono il 95% dei rating mondiali) dà  i voti agli emittenti dei titoli che vengono collocati sui mercati: buoni del Tesoro, obbligazioni emesse da banche e aziende. Incollando sigle fatte di lettere (A, B, Aaa, ecc.) e di segni aritmetici (più, meno) ai debitori che emettono titoli, le agenzie pubblicano pagelle il cui impatto è decisivo. Tutti gli investitori si fanno guidare da quei voti, prima di decidere se comprare titoli e quale rendimento pretendere in cambio del rischio che si assumono. Le agenzie non lavorano gratis. Il rating se lo fanno remunerare dalle stesse società  emittenti di titoli. Un rating costa dai 1.500 dollari ai 2,5 milioni, a seconda delle dimensioni del soggetto “votato”. Solo sui bond di molti Stati sovrani il rating viene emesso gratis. Di qui il sospetto che le agenzie siano state lassiste con certe aziende private, ultra-rigoriste con alcuni Stati. Il corposo dossier elaborato dal Dipartimento di Giustizia riguarda i voti di alta solvibilità  regalati a tanti prodotti strutturati, i famigerati titoli della “finanza tossica”, con dentro crediti legati ai mutui che si sarebbero rivelati inesigibili.
Tra gli incidenti più scabrosi di questi anni ci fu anche il “falso downgrading” della Francia, una notizia errata, trapelata il 10 novembre 2011 dagli uffici della S&P, suscitando in pochi minuti oscillazioni isteriche sui mercati. Sotto l’Amministrazione Obama il dipartimento di Giustizia ha accumulato prove pesanti. Ecco alcuni esempi di come funzionava “la mafia dei rating”. S&P fatturava 150.000 dollari per valutare titoli collegati ai mutui subprime, e fino a 750.000 per titoli complessi. Se l’emittente dei titoli riusciva a trovare giudizi più favorevoli da Moody’s o Fitch, l’analista di S&P colpevole di aver perso il cliente era costretto a presentare un dettagliato memorandum di autodifesa per giustificarsi. «La maggior parte dei rating venivano completati in meno di 15 minuti». La parola d’ordine era: “business friendly”, compiacere il cliente. Il disastro dei mutui era chiaro ai vertici S&P già  nel 2006, ma lo nascosero per un anno. Quando cominciarono a declassare tutti i rating all’impazzata, nel 2007, con perdite di 2.000 miliardi sui valori dei titoli, fu il detonatore della crisi sistemica mondiale.
Nella grande riforma dei mercati promossa da Obama, e approvata dal Congresso con il nome di legge Dodd-Frank, c’è di che ridimensionare il potere delle agenzie. La Sec, che oltre a vigilare sulla Borsa è diventata l’authority di controllo sulle agenzie, ha deciso di ridurre il ricorso ai rating in molti dei suoi regolamenti. Ha promesso di elaborare dei metodi sostitutivi per chi voglia investire in modo trasparente sfuggendo alla “dittatura dei rating”. La Dodd-Frank allarga il campo della responsabilità  civile, per facilitare gli investitori che vogliano rivalersi sulle agenzie. E’ stato creato l’Office of Credit Ratings, destinato a diventare il cane da guardia che starà  alle calcagna dei signore del rating.
In confronto all’Amministrazione Obama, l’Unione europea è stata fin qui “il cane che abbaia ma non morde”. Più volte gli europei hanno minacciato una secessione dall’universo dei rating. Più dei governi e della Commissione Ue, ha agito la Bce di Draghi. Il 21 giugno 2012 il Board della Bce ha avviato un rilassamento delle regole sui titoli che le banche spagnole possono depositare in garanzia, per ridurre il ruolo dei rating. Commissione Ue, Europarlamento, continuano a discutere sui possibili limiti all’applicazione dei rating sovrani. Se arriva la stangata da 5 miliardi, Obama avrà  colpito per primo, e duramente.


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