Così l’intervento di Draghi ha frenato la guerra valutaria
Eppure molti sul mercato assistono agli sviluppi più con l’occhio da giudici di un concorso di bruttezza, nel quale è destinata a vincere la moneta più respingente.
Pochi anche solo otto mesi fa avevano dubbi sulla campionessa. La palma in apparenza doveva spettare comunque all’euro, eppure l’altro ieri Mario Draghi è dovuto intervenire (a parole) per frenare gli afflussi di fondi verso la moneta unica. Giovedì il presidente della Banca centrale europea ha usato una sola frase, ma efficace: «Certo vorremo verificare se l’apprezzamento (dell’euro, ndr), qualora continui, altererà la nostra valutazione dei rischi riguardo alla stabilità dei prezzi». Tradotto fuori dal mondo un po’ autoreferenziale delle banche centrali: se l’euro continua a rivalutarsi, può ridurre ancora di più il costo delle importazioni — per esempio, del petrolio — e portare le stime d’inflazione troppo al di sotto del 2%; a quel punto, almeno in teoria, la Bce potrebbe fare qualcosa per invertire la deriva rialzista della valuta.
Dopo quelle parole di Draghi, la moneta unica ha subito perso quota arrivando a 1,336 dollari contro un massimo degli ultimi giorni di 1,371.
È stato il primo intervento verbale di Draghi sull’euro da quando è alla Bce, ed è giunto in un ennesimo momento delicato nel rapporto con Parigi e Berlino. Negli ultimi giorni il presidente francese Franà§ois Hollande aveva iniziato a lamentarsi dei problemi per l’export europeo creati da una moneta forte. Da luglio l’euro è arrivato a rafforzarsi di circa il 14% sul dollaro, svantaggiando il gruppo aeronautico di Tolosa Eads sull’americana Boeing. Subito Berlino si è mossa in senso opposto, malgrado la sfida diretta dell’industria giapponese alla Germania con la caduta dello yen sull’euro del 34% da luglio. Il governo tedesco ha fatto sapere che non è con una moneta debole che si recupera competitività .
Per ora l’intervento di Draghi sembra aver stemperato queste tensioni, fra capitali europee e con Giappone e Stati Uniti. Gli analisti di Danske Bank ormai definiscono Draghi «il maestro degli interventi verbali». Essere chiamato «maestro» non portò fortuna a Alan Greenspan alla Federal Reserve, eppure il presidente della Bce per ora sembra riuscire a indirizzare i mercati dove vuole senza spendere un euro in concreto. Gli è già riuscito con l’annuncio dell’Omt, il programma di acquisto dei titoli sovrani che (per ora) ha ridotto gli spread senza dover essere attivato in concreto.
Ma come anche nella crisi del debito, fattori più sotterranei sono all’opera, e stavolta riguardano proprio il concorso di bruttezza fra monete. Secondo David Bloom, capo globale delle strategie sui cambi di Hsbc, la corsa dell’euro probabilmente era e resta destinata a frenare comunque. In questi mesi la rivalutazione è stata alimentata dal ridursi dei timori sulla frantumazione della moneta. Molti fondi parcheggiati in Gran Bretagna, in Svizzera, in Repubblica Ceca o in Polonia sono rientrati sull’euro al venir meno delle preparazioni su un collasso imminente. Questa marea di ritorno ha spinto di nuovo in alto la moneta unica, ma Bloom ritiene che i flussi si stiano esaurendo.
La sua candidata alla vittoria del concorso fra le monete più respingenti, dunque più deboli, è la sterlina britannica. Il mercato ha smesso di perdere sonno per l’euro in bilico, per il «precipizio fiscale» degli Stati Uniti o per la frenata (contenuta) dell’economia cinese. Anche lo yen potrebbe aver esaurito quasi tutto il suo potenziale al ribasso, dopo la prima spinta del governo di Shinzo Abe. Resta dunque la valuta di Sua Maestà . Il deficit di Londra che non cala, la crescita che non c’è, un taglio imminente al rating e il cambio al timone della Bank of England possono fare della sterlina la più brutta del reame. Forse così, almeno per un po’, anche la Gran Bretagna potrà coltivare la base industriale abbandonata vent’anni fa.
Federico Fubini
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