C’è la crisi, e l’azienda licenzia «solo» gli operai della Fiom

by Sergio Segio | 1 Febbraio 2013 8:08

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PIANO LAGO (CS). Il «marchionne» di fabbrica è sempre quello: licenziare e discriminare. Eliminare i sindacati ostici e blandire quelli complici. Mandare al macero tutele e diritti dei lavoratori, brandendo la crisi come una clava e incuneandosi tra i cavilli della legislazione. L’arroganza padronale non si è fermata ad Eboli e nemmeno a Melfi. Ma scava anche nel profondo sud. A Piano Lago, il distretto industriale di Cosenza, la musica non cambia. Con una scarna quanto crudele lettera, il 27 dicembre la Lutirom e l’Azzurra, società  che producono componenti metallici e assemblano pezzi per Alfagomma, hanno comunicato a 14 operai la risoluzione del rapporto di lavoro. C’è crisi, e «le commesse di lavoro sono contrassegnate da una pesante riduzione sia quantitativa che di rete economica in un quadro che, in relazione ai recenti eventi economici, è destinato a perdurare nel tempo e ad aggravarsi».
Insomma, la «crisi» come passepartout per licenziare a piacimento. Nel «dopo Cristo» di Marchionne la ricetta padronale è nulla più che un ricatto: scegliere tra la perdita del posto e la rinuncia ai diritti basilari. Ma a Piano Lago c’è un ingrediente in più. A ricevere la lettera di licenziamento (e senza un solo giorno di preavviso) da Lutirom e Azzurra (due aziende che qualche anno fa con la logica delle esternalizzazioni selvagge hanno ottenuto un intero comparto produttivo dall’Alfagomma) sono stati esclusivamente gli iscritti Fiom: su 27 lavoratori, soltanto i 14 tesserati al sindacato di Landini. E’ questo il motivo «oggettivo» del licenziamento? Loro pensano di sì e son scesi in piazza per chiedere il reintegro immediato. Di tutt’altro avviso le sorelle Tiziana e Maria Rosaria Guarascio, le proprietarie delle fabbriche, che puntano a far piazza pulita di diritti e tutele sindacali, schermandosi dietro la solfa della crisi. Provocata dalla fame di profitto dei padroni, non certo dagli operai. In una realtà  produttiva segnata dalla negazione dei diritti, da pagamenti non regolari, dall’assenza delle condizioni minime di sicurezza. Insomma, il lavoro come concessione e non come diritto costituzionalmente sancito. Una roba da medioevo, da corvees feudali. «La nostra vicenda non rappresenta solo un dramma umano e sociale che lascia 14 famiglie sul lastrico – ci dicono i lavoratori- ma è l’ennesimo campanello d’allarme che segnala l’imbarbarimento del mondo del lavoro, la discesa rapida in un limbo dove in nome del profitto la dimensione di lavoro e di cittadinanza viene cancellata».
Lutirom e Azzurra nient’altro sono che due rami d’azienda facenti capo allo stesso padrone, che utilizzano gli stessi macchinari, nello stesso luogo produttivo, che, fino all’anno scorso, erano riuniti sotto la sigla di Lutirom. Poi è accaduto che le sorelle Guarascio, pensando fosse arrivato il tempo di eliminare lacci e lacciuoli, tutele e garanzie, tirassero fuori dal cilindro l’artifizio della cessione di ramo d’azienda. Il risultato è due aziende gemelle, entrambe sotto la soglia dei 15 dipendenti, dove licenziare ad nutum è tremendamente possibile. Qualche giorno fa, dopo aver presidiato per giorni i cancelli dell’Alfagomma di Piano Lago, i lavoratori hanno protestato davanti alla sede di Confindustria a Cosenza.
Rivendicano il reintegro sul posto di lavoro ed una soluzione negoziata, diversa dal licenziamento, alla presunta crisi aziendale (cassa integrazione, part time, contratto di solidarietà ). La crisi, infatti, è sembrata a tutti un pretesto usato per liberarsi di un gruppo di lavoratori sindacalizzati che con la loro scelta di iscriversi alla Fiom avevano dimostrato di non voler più accettare i soprusi della proprietà  e, per ciò stesso, potevano rappresentare un pericoloso esempio. Tutto questo in un deserto sociale, dove la solitudine dei lavoratori è palpabile. «Di loro non si è accorto la politica che lascia fuori questi temi dalla campagna elettorale, non se ne è accorto un sindacato subalterno agli intrighi ed alle agende imposte dalla politica locale.
«Stupisce, e pesa come un macigno, il silenzio della Camera del lavoro cosentina, a cui non può sfuggire il valore simbolico della vertenza e che non può continuare a lasciare soli questi operai se vuole conservare un minimo di credibilità  quando dice di voler contrastare lo sfruttamento e i ricatti. Peraltro la crisi degli ordinativi c’è ma, evidentemente, non è così profonda come si vorrebbe far credere» rimarca Delio De Blasi, della Cgil che vogliamo di Cosenza.

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