Bersani deluso: «Noi primi, ma non vincitori»

by Sergio Segio | 27 Febbraio 2013 8:32

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Il leader pd delinea i punti di intesa con Grillo. No a Berlusconi: «Si riposi» ROMA — Bersani non abbandonerà  la nave del Pd in tempesta, «da capitano o da mozzo» il segretario proverà  a restare a galla senza perdere la rotta. Ma nessuno meglio di lui sa quanto la navigazione a vista di un governo «di scopo», appoggiato da Grillo, da Monti e da chi ci sta, potrebbe essere rischiosa: «Ogni giorno ha la sua pena». D’altronde Romano Prodi lo aveva avvertito: «Devi vincere alla grande, non un pochino!». È andata come l’ex premier temeva e adesso Bersani deve trovare il modo di non disperderlo, quel «pochino» di voti che lo separano da Berlusconi. Ma il governissimo no. Perché il leader, lo ribadisce che è notte ai capicorrente riuniti per il «caminetto» di emergenza, è convinto che l’abbraccio col Cavaliere «distruggerebbe il Pd».
Alle 17 riappare nella sala stampa dell’Acquario dopo 24 ore da recluso nella sua casa romana. I fotografi immortalano il viso stremato, le spalle reclinate, le braccia che cercano il sostegno del leggio. È il momento più duro, in cui bisogna ammettere la «delusione» e rilanciare, sfidando Grillo sul suo stesso terreno. «Noi non abbiamo vinto, anche se siamo arrivati primi» è la formula con cui tenta di tenere assieme la non-vittoria elettorale e la sconfitta personale. La governabilità  non c’è e lui subito lo ammette, senza però intestarsi la mancata riforma del Porcellum: «Non siamo stati noi a impedirla». La mano sinistra in tasca e la destra che stringe gli appunti, prende atto con «umiltà » del risultato e, per essere «utile al Paese», apre decisamente a Grillo, «l’enorme novità  che ha investito il sistema». Attento a non mettere in discussione le prerogative del capo dello Stato, snocciola il programma «essenziale» con cui spera di stanare il leader dei 5 Stelle, perché «si prenda le sue responsabilità » davanti al Parlamento e all’Italia. «Hanno detto “tutti a casa”, ma adesso ci stanno anche loro — alza un po’ il tono della voce Bersani —. O vanno anche loro a casa o dicono cosa vogliono fare per questo Paese e per i loro figli». Non sa come «’sto governo» possa mai chiamarsi. Di minoranza? Di programma? Della non-sfiducia, come l’Andreotti del ’76? «Chiamiamolo di combattimento, di cambiamento. Ma sulla durata non posso strologare». L’idea è ottenere la fiducia alla Camera e poi, al Senato, tentare la sorte voto dopo voto, contando su una dozzina di grillini e su Monti, che pure Bersani non nomina mai.
Pensa di procedere «tema per tema» e li elenca, senza metterli a fuoco: «Riforme istituzionali, legge sui partiti, moralità  pubblica e privata, difesa dei ceti più esposti alla crisi…». Il lavoro e poi, altra strizzata d’occhio ai grillini, «impegno per cambiare la politica europea». Bersani non si metterà  a «imbastire accordi». E se il Cavaliere apre, lui chiude brusco: «Berlusconi? Si riposi». È che convinto che tocchi a lui «tirare fuori il Paese dall’impasse», ma con cautela si affida a Napolitano: «Chiederemo consigli al capo dello Stato».
Gli domandano se davvero stia pensando di dimettersi e lui smentisce: «Non sono uno che abbandona la nave. Mi propongo di tenere la barra del mio partito». Gli gettano addosso la croce di Renzi: «Ho sentito, ho visto su Twitter. Più delle primarie, cosa avrei dovuto fare? Dopodiché, può darsi pure che un altro…». È infinitamente stanco, manda giù un altro sorso d’acqua, non vede l’ora che il supplizio finisca. Perché non ha inseguito Berlusconi sul terreno delle proposte choc? «Perché so fare questo mestiere qua, non me la sento di coltivare inganni». L’unico (amaro) sorriso lo concede a una giornalista che evoca il giaguaro della nota metafora, ma è un rapidissimo lampo nel buio.
Il segretario scivola via, per incontrare Vendola e poi chiudersi al partito. I vertici sono smarriti, a parte le giovani leve non si è fatto vedere nessuno. Al mattino chi tra i dirigenti è andato al Nazareno per parlare col leader ha trovato le stanze deserte. Bersani era altrove, in un vertice riservato agli «emiliani» Migliavacca ed Errani. C’è tensione, preoccupazione. Chi si lamenta per la «vaghezza» della linea e chi ironizza sull’«autismo» del leader. Al coordinamento, in notturna, la spaccatura si fa evidente e Fioroni ammonisce i compagni: «Guai a chi pensi a esecuzioni capitali». Finocchiaro è con Bersani. D’Alema spinge per il governissimo col Pdl. Ma la pancia del partito tifa per l’accordo con il M5S e Orfini la mette così: «Una maggioranza senza Grillo? Impensabile».

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