Aversa per l’ultima volta
Fa un freddo che spacca le mani mentre entriamo nell’Ospedale giudiziario di Aversa, il vecchio manicomio criminale. Qui vi sono internati sofferenti psichici autori di reato, condannati ad una misura di sicurezza detentiva. Ora ve ne sono circa 160, in una struttura che fino a poco tempo fa era arrivata a contenerne oltre trecento. Non c’è stata una evasione di massa. È che questi luoghi infernali, prima condannati al silenzio, sono rapidamente passati dall’oblio alla ribalta nazionale. Tanto da essere citati nel discorso di fine anno del presidente della Repubblica come esempio di barbarie e vergogna. Dire che siamo di casa sarebbe offensivo per chi è costretto a stare qui, ma la frequenza delle visite ci porta ormai ad una certa consuetudine con chi porta la responsabilità di questa struttura. «Dottò, non è cambiato molto dall’ultima volta che siete venuti, ci stanno giusto una decina di internati in meno. Una ventina sono stranieri». Queste le parole del comandante degli agenti di polizia penitenziaria che ci accoglie all’ingresso. Un ispettore prende parte alla discussione, «Dottò, ma allora che facciamo, li chiudiamo veramente?». Inutile girarci attorno, qui tutto il personale si pone questa domanda «che fine facciamo?».
Dopo il rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e il grande lavoro della Commissione parlamentare presieduta da Ignazio Marino, non era possibile ignorare oltre questi posti inumani e degradanti. Una legge votata all’unanimità lo scorso anno ne ha decretato la chiusura al 31 marzo. La norma prevede che ogni regione, con risorse trasferite dallo stato, predisponga strutture sanitarie residenziali modulari che sostituiranno gli Opg per i sofferenti psichici autori di reato considerati «socialmente pericolosi». Per gli altri, quelli per i quali la misura è prorogata solo per assenza di alternative, è previsto l’affidamento ai servizi sociali e di salute mentale. Messa così sembra facile, ma, come si può immaginare, è un percorso ad ostacoli, impigliato nelle maglie della burocrazia e del business sanitario.
Celle aperte, custodia attenuata
Entriamo nel primo reparto, il VI, venticinque presenti. A differenza di altre volte non sento l’odore di urina che ti aggrediva all’ingresso. Alle pareti ora c’è vernice fresca e colorata. Non dignità , ma almeno decenza. A parte questo, nelle vite che ti circondano, non sembra esserci meno dolore o disperazione. La sezione è a custodia attenuata, le celle, piccole e spoglie (due o tre per cella) sono aperte. Gli internati ci squadrano perplessi. Il nostro è un arrivo annunciato. A rompere il ghiaccio e le cerimonie ci pensa Massimo, che attira la nostra attenzione inveendo contro il mondo, mettendo all’indice nemici immaginari e reali. Si avvicina, poi arretra, poi torna. Protesta arrabbiato. È qui da troppi anni (che io ricordi almeno cinque) rovescia una storia indecifrabile che fatico a comprendere. È solo, mi dice, nessuno si prende cura di lui, si è chiuso in una stanza perché aveva paura che la madre volesse ucciderlo e i carabinieri sono andati a prenderlo. Più parla più le parole si aggrovigliano. Provo a tranquillizzarlo, gli faccio i complimenti perché indossa, a differenza degli altri (tutti con vestiti di lana vecchia e consunta), un bel giaccone. Non coglie, non sembra. Mi dice ancora delle cose confuse e poi si allontana. Il direttore sanitario Raffaele Liardo, che ci accompagna, mi racconta dello sforzo della Asl per destinare qui sette psichiatri specialisti (a contratto), tre a tempo pieno e dieci psicologi. È difficile scegliere di investire in una struttura che in teoria dovrebbe chiudere, ma necessario per attivare percorsi di dimissione per gli internati, oltre che per assicurare livelli essenziali (ma davvero minimi) di assistenza.
I più sono «sopiti»
Un agente mi dice: «Dottò, questi dalle comunità ci tornano indietro, perché lì sono molto più severi che noi. voi non ci credete ma è così. Lì non li fanno nemmeno fumare». Qui, nella monotonia di giorni sempre uguali, non vi è nulla di più richiesto di una sigaretta. Lo testimoniano le dita ingiallite dalla nicotina di quasi tutti gli internati. Proseguiamo il nostro giro, nel cortile, un piccolo quadrato di asfalto, un paio di internati rimangono indifferenti, sguardo fisso, seduti sull’unica panchina. Ci vengono incontro vite spezzate e confuse. Sono qui da molti anni, i più sono «sopiti» e lenti. M., con la tuta da lavorante, è magro e lucido. Come tanti viene dal Lazio. Per un po’ ci ha seguiti sospettoso, poi si avvicina e mi racconta. È da oltre quattro anni in questo inferno per «offesa a pubblico ufficiale». È riuscito anche ad uscire, ma l’avevano mandato in una comunità per non autosufficienti, perché non c’erano alternative. Poi l’Asl non aveva più copertura economica, lui ha litigato con quelli della comunità ed è tornato dentro. Altri due anni di proroga dalla misura. «Noi contiamo meno di un faldone giudiziario. Quello almeno l’archivi, lo metti in un posto. A noi invece non sanno nemmeno in che posto metterci», usa queste precise parole. S. è qui per estorsione, ha preso 120 euro dalla madre e si è già fatto cinque anni. A breve ha il riesame, mi chiede se posso fare qualcosa per lui. Perché gli hanno detto che lo mandano in comunità , «ma lì sono tutti matti, non ci voglio stare». Vorrei trovare una bugia per rassicurarlo, ma non me ne vengono. Mi sento toccare ad un braccio. Mi giro e vedo Massimo che ha indossato un nuovo giaccone e me lo mostra fiero. Una fila di denti neri stretta a forma di sorriso. Tempo un attimo e riprende agitato a raccontarmi una storia di ingiustizie e torti subiti che comprendo per gesti, ma non per parole.
Nel reparto isolati
Proseguiamo, passando accanto alla cella priva di ogni suppellettile che si usa per l’isolamento. Me l’ha indicata un internato, con rassegnazione che sa di paura. Raccogliamo brandelli di storie, mentre Ilaria documenta con foto. Donato ha un maglione azzurro e un jeans slavato, tagliato corto. Non so dire quanti anni abbia, ma ha il tono della voce dolce e basso. Mi si avvicina e mi chiede come sto, che ho fatto a Natale, perché non passo più spesso. Sono felice che sei qui, mi dice in un orecchio. Vuole farsi una foto assieme.
Lasciamo il reparto che il freddo e l’umidità si sentono fin sotto i vestiti, eppure sono poco più di due ore. Fuori un po’ di luce ci ridà il calore che non si sente in reparto. Ci raggiunge Peppe Nese, psichiatra che conosce bene questo posto e che è responsabile per la Campania del tavolo tecnico che si occupa della chiusura. Il decreto che ripartisce le risorse per le regioni è stato ieri (7 febbraio ndr) pubblicato in Gazzetta ufficiale, mi dice. E’ cautamente ottimista, numeri alla mano. Qui in Campania abbiamo anticipato i criteri contenuti per la realizzazione delle nuove strutture, siamo pronti a realizzarne otto che accoglieranno i campani sottoposti a misure di sicurezza. Ma nemmeno qui, dove si è partiti in tempo, è immaginabile costruire queste strutture entro il 31 marzo. Figuriamoci in quelle regioni dove il processo non è stato nemmeno avviato. Una proroga sembra essere nelle cose, questo è il giudizio di molti operatori. Il termine può essere prorogato solo con legge e a Camere sciolte non potrebbe che intervenire un provvedimento del governo. Ed è escluso che si interverrà prima delle elezioni.
Qui da 5 anni per piccoli furti
Siamo ora nel reparto sociosanitario, interamente gestito dagli infermieri. Nello spazio cortile di ingresso una decina di internati, coperti di vestiti spaiati, è seduta a fumare o a guardare nel vuoto. Due ragazzi stranieri, africani, siedono di fianco su una panchina. Dentro, al primo piano, tre letti per stanza, c’è un uomo di settantacinque anni. Steso sul letto sembra ancora più piccolo, peserà pochissimo e dimostra almeno dieci anni in più. Una vicenda complessa (che rende ancora più difficile affidarlo ad una Asl) che non vuole raccontare, si scusa ma la sua è «una storia che non dice niente». Ne rispettiamo il silenzio. Nella stanza di fianco Paolo C. , (qui da cinque anni per una serie di piccoli furti) ripete che lui in carcere non può stare, che il cibo fa schifo, che lui è anoressico. Il volto scavato e teso, il corpo magrissimo ne sono testimonianza. Dietro il suo letto foto di padre Pio e ritagli di giornale che parlano di amnistia. C’è poco da dire o da fare, Paolo può essere saziato solo dalla libertà .
Speriamo che non sia una bugia
Sono trascorse quattro ore, quando usciamo abbiamo più dubbi di prima. L’unica certezza è che questo posto vada chiuso. Il futuro è invece incerto e non solo per il rispetto dei tempi. Il rischio concreto è che, in assenza di modifiche al codice penale e alla proroga delle misure di sicurezza, anche a sistema, non si darà la fine dell’internamento manicomiale ma il suo moltiplicarsi in piccole strutture sanitarie e in reparti psichiatrici diffusi nelle carceri. Penso a Donato, che, dopo la foto fatta assieme, mi si è avvicinato e, con tono complice, mi ha sussurrato, in un orecchio, «questa la mandi a papà ». «Donato – ho risposto – te la conservo così, quando esci, a papà glie la dai tu». Vorrei non aver detto una bugia.
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