Addio ripresa, ecco il costo dell’austerità  ogni euro di sacrifici, fino a due in meno di Pil

by Sergio Segio | 23 Febbraio 2013 13:44

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CONTRORDINE: non si vede luce in fondo al tunnel. Al massimo, una incerta luminescenza, che sembra spostarsi sempre più lontano. L’Europa, avvertono gli esperti di Bruxelles, si avvia al secondo anno di fila di recessione, il terzo negli ultimi cinque anni. Non è quello che si aspettava la tecnocrazia europea: ancora prima di Natale, si scommetteva su un 2013 positivo, sia pure di un soffio, con una crescita dell’economia dell’eurozona dello 0,1 per cento. Invece, adesso si prevede una contrazione dello 0,3 per cento, con il segno più rinviato al 2014. Tecnicamente, questa inversione fra crescita e recessione non è il risultato di una svolta drammatica: semplicemente, i germogli di ripresa, che sarebbero dovuti sbocciare quest’estate, non si vedranno prima dell’autunno. Troppo tardi, per consentire alle economie europee di recuperare la frenata dei primi tre trimestri, ma il 2014 dovrebbe finalmente salutare la ripresa. Il problema è che diventa sempre più difficile crederci, di fronte all’ennesimo rinvio, dopo tante aspettative deluse, tanto ottimismo bruciato in questi anni. Soprattutto, perché ancora non è chiaro su quale leva appoggerebbe una vigorosa ripresa europea.
Molti economisti hanno accolto i dati diffusi da Bruxelles come la conferma che la sbornia dell’austerità  non è stata ancora assorbita e smaltita e il salasso praticato, a forza, all’economia con il taglio della spesa pubblica e gli aumenti di tasse, nel disperato tentativo di fermare l’attacco dei mercati finanziari, non ha ancora cessato di produrre i suoi effetti. Perché l’austerità  ha funzionato, centrando i suoi obiettivi. Ieri, a Bruxelles, hanno evitato di battere la grancassa sull’argomento, ma i dati dicono che il deficit di bilancio pubblico, per l’insieme dell’eurozona, quest’anno scenderà  effettivamente
sotto la soglia fissata del 3 per cento, e non di poco. à‰ previsto che il disavanzo si fermi al 2,8 per cento del prodotto interno lordo quest’anno, per calare ancora al 2,7 per cento nel 2014. Il prezzo di questo risanamento — troppo drastico e troppo accelerato nel giudizio del Fondo monetario internazionale — è stato lo strangolamento
della crescita, che emerge dalle contemporanee previsioni sull’economia. Non c’è motivo di stupirsene, hanno avvertito in una recente riflessione gli economisti dell’Fmi. Sulla base delle precedenti esperienze, si pensava che un taglio del deficit pubblico dell’1 per cento, comportasse, grosso modo, una frenata dello 0,5 per cento del prodotto interno lordo. Si è visto, invece, che la frenata, a seconda
delle diverse condizioni nazionali, può andare da 0,7 a 1,9 punti di Pil: la volatilità  delle previsioni economiche di questi anni è anche il risultato di questa deformazione ottica.
Anche se a Bruxelles queste osservazioni dell’Fmi sono state accolte, ufficialmente, con qualche malumore, l’atmosfera che si respira nelle capitali europee, tuttavia, è, nei fatti, molto cambiata negli ultimi mesi: l’ossessione ideologica sulle ricette di rigore e sui vincoli di bilancio si è assai attenuata. Lo conferma la disponibilità , subito mostrata, ieri, dalla Commissione, a considerare, diversamente da qualche mese fa, non solo l’astratto rispetto dei vincoli di bilancio, ma anche l’impatto che la recessione ha avuto sul gettito fiscale, nel giudicare i risultati finanziari dei singoli paesi. à‰ probabile che, da qui a maggio, ai paesi, come, ad esempio, Francia e Spagna, più in difficoltà  nel rispettare i vincoli di bilancio, venga concesso più tempo per centrare gli obiettivi come, da tempo, suggerisce ancora l’Fmi.
Un risanamento meno affannoso
non è, però, ancora, una politica che rilanci la crescita. Nella sua autocritica, l’Fmi osservava che l’impatto imprevisto dell’austerità  sulla ripresa era frutto di due circostanze eccezionali. La prima è un livello di tassi di interesse molto basso, che impediva di compensare con il credito il rincaro delle tasse. La seconda è che la leva classica per tenere a galla l’economia — le esportazioni — diventava impraticabile perché tutti i maggiori partner commerciali, cioè gli altri paesi europei, tiravano contemporaneamente la cinghia.
L’austerità , tutti insieme, non funziona. Delle due componenti, forse la seconda è la più importante. Negli ultimi mesi, il saldo commerciale dei paesi più deboli, anche grazie ad un certo rilancio dell’export, è migliorato. Il problema, avvertiva ieri un rapporto del Credit Suisse, è che è migliorato anche quello tedesco. Anche qui, un surplus commerciale, contemporaneo, di tutti, non è possibile. Il risultato inevitabile è un apprezzamento del cambio dell’euro, che inghiottirebbe tutti i guadagni di competitività  e, anzi, secondo la grande banca svizzera, “potrebbe innescare una nuova recessione”. L’alternativa esiste. Non per la prima volta, gli analisti del Credit Suisse indicano che la leva di una ripresa europea è una decisa politica espansiva — tagli di tasse o aumenti salariali — in Germania, che la trasformino in sbocco delle esportazioni europee, senza incidere sul cambio. Difficile, però, che a Berlino accettino di discuterne prima delle elezioni del prossimo settembre.

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