A SYLVIA

by Sergio Segio | 8 Febbraio 2013 7:40

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    È trascorso mezzo secolo da quel mattino gelido, la cui immagine resta fissata nella memoria storica del “femminile” con la perentorietà  di una tragedia greca. L’11 febbraio 1963, Sylvia Plath chiude porte e finestre della sua casa londinese e si toglie la vita, infilando la testa nel forno a gas. Il gesto è incorniciato da una cura quasi teatrale dei dettagli: prima di suicidarsi, Sylvia posa pane e latte accanto ai letti dei suoi bambini addormentati, Frieda e Nicholas, spalancando la finestra della loro stanza per salvarli. La poetessa di culto del Novecento a quell’epoca ha trent’anni, e ha appena pubblicato il romanzo
La campana di vetro (The Bell Jar).
Presto la diafana autrice si trasforma in un fragoroso campo di battaglia. Lo è per il marito, il poeta Ted Hughes, bersaglio di accuse e sospetti, oltre che depositario del patrimonio testuale lasciato dalla moglie. Lo è per i biografi, accaniti nell’indagare l’itinerario breve e fertilissimo di una creatura magnetica nel suo groviglio di ferite e squilibri. Lo è per il pensiero femminista, che s’appropria dell’anima straziata di Sylvia facendone un vessillo spesso irrigidito negli obiettivi e nelle strategie.
Come ha scritto Nadia Fusini nell’introduzione al Meridiano dedicato all’opera della Plath, suonano incongrue le catalogazioni dei suoi versi in etichette quali poesia femminista, poesia femminile o poesia confessionale. Sylvia non è un “io” lirico e autobiografico: il suo genio sfugge alle banalità  di attributi quali donna, bianca, gelosa, aggressiva, sofferente, tradita del marito. Nulla di aneddotico o funzionale corrompe la purezza dei suoi edifici verbali,
che dominano la percezione dell’ineffabile posseduta solo dai poeti veri. Per dirla con Robert Lowell, «le sue poesie sono eventi, e non registrazioni di eventi».
Eppure i fatti della sua comparsa sulla Terra si ripropongono di continuo. Forse perché Sylvia, incandescente e “maledetta”, è un’icona che pervade la modernità , traducendosi in un film interpretato da Gwyneth Paltrow (Sylvia, 2003), riflettendosi in dediche di poeti come Carol Ann Duffy, facendosi menzionare nelle canzoni del gruppo rock Manic Street Preachers ed irrompendo come citazione nel film Natural Born Killers e nei Simpson.
L’ultimo a cercare di arricchire il suo ritratto è Andrew Wilson, che nella biografia Mad Girl’s Love Song, appena uscita in Inghilterra per Simon and Schuster, viaggia nella prima fetta della sua vita, cioè fino al suo incontro con Ted Hughes, nel ’56. La Sylvia consegnataci da questo libro, pieno di materiali inediti e di interviste con amici e amanti, è una studentessa fresca, vivace e dalla cotta facile, dedita all’esercizio spregiudicato dei flirt. A volte si avventura in fidanzamenti, attraversando con convinzione passionale gli amori con lo studente di medicina Dick Norton, con il bohèmien Richard Sassoon e con l’aspirante ufficiale di marina Gordon Lameyer, conosciuto a Weellsley, la cittadina middle-class, non lontana da Boston, dove la promettente scrittrice compie i suoi studi.
Di edonismo inaspettato è la sua rapida parentesi newyorkese, nella primavera del ’53, quando Sylvia fa esperienza redazionale nella rivista Mademoiselle.
Col suo sorriso lucente, le spalle candide esaltate da abiti scollati e certi frivoli cappellini alla Grace Kelly, Sylvia è una nuvola bionda che aleggia in un turbine di incontri letterari e serate mondane, venendo a contatto con scrittori come Noà«l Coward e Dylan Thomas.
Ma in lei già  emergono turbe emotive. Per un verso sorseggia daiquiri, si avventa su coppe colme di caviale e accenna mosse di danza ai party sulla terrazza del St Regis Hotel. Per un altro descrive, nelle lettere al fratello, il panico provato quando si è persa nei meandri spaventosi della metropolitana di Manhattan. E un giorno, in un country club, viene sconvolta dall’aggressione sessuale subìta da un ragazzo peruviano, José Antonio La Vias. Quel mondo le appare sempre più minaccioso e finto, e in estate il suo medico di famiglia la fa sottoporre a un ciclo di elettroshock. Al 24 agosto risale il suo primo tentativo di suicidio.
A partire dall’unione con Hughes, la vicenda della Plath diventa assai più frequentata dai suoi biografi. Di libri ne sono usciti a raffica, dallo scandalistico Sylvia Plath: Method and Madness, di Edward Butscher (1976), fino a Sylvia Plath di Linda Wagner-Martin, dell’87, che intreccia l’esistenza e l’opera attingendo a diari e a corrispondenze. Questo volume ha una storia interessante. Considerato a suo tempo lesivo dal marito della Plath (che autorizzò e sponsorizzò a più non posso la biografia di Anne Stivenson Bitter Fame, dell’89, tutta a suo favore nelle questioni riguardanti il matrimonio), venne da lui osteggiato e denunciato. Alla scomparsa di Hughes, la Wagner-Martin firmò una nuova edizione ancora più tagliente nei confronti di Ted, uscita nel ’99. Quest’ultima è la versione che arriva ora in Italia, edita da Castelvecchi.
Si sa che nel ’62, pochi mesi dopo la nascita del secondogenito Nicholas (il quale, da adulto, si sarebbe a sua volta suicidato), Ted s’innamora della moglie del poeta canadese David Wevill, Assia. Sylvia si separa traumaticamente dal marito e tutto slitta nella catastrofe. Ted, alla morte di lei, assume il ruolo di custode della sua eredità  artistica, e qui cominciano i problemi, per esempio con i Diari (in italiano li ha pubblicati Adelphi). Il loro testo non è integrale, e lo stesso Hughes dichiarò di aver distrutto certe parti per difendere il ricordo dei figli (alla sua censura, però, sono sopravvissute le lodi adoranti della moglie verso la produzione poetica del marito).
Ma un anatema al femminile lo perseguita. In una fosca replica di destino, Assia, la sua nuova donna, si suicida nel 1969 con il gas del forno, non prima di uccidere la figlia di quattro anni avuta con lui. Giustiziato idealmente dalle femministe (sulla lapide della tomba della Plath il nome Hughes è stato cancellato più volte), Ted muore nel 1998 dopo aver pubblicato le Lettere di compleanno, una serie di poesie d’amore e pentimento indirizzate a Sylvia, che avrebbero dovuto redimerlo. Proprio contro questa raccolta si scaglia la Wagner- Martin, dimostrando, tramite analisi acute, come molti di quei versi non siano che un rifacimento deformante e offensivo delle poesie di Sylvia.

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