A lezione dal Gandhi italiano
Non tutti lo sanno: la Marcia della pace tra Perugia e Assisi, che dal 1961 continua a svolgersi tutti gli anni, con grande risonanza e seguito, fu ideata dal filosofo Aldo Capitini (1899-1968), uno dei personaggi più interessanti dell’Italia postbellica. Il suo rifiuto della tessera fascista nel 1934 gli aveva fatto perdere il posto di segretario alla Scuola Normale di Pisa, ma Capitini continuò a non tacere, e anzi a frequentare i più autorevoli rappresentanti dell’antifascismo. Dopo la caduta del regime, progettò e in parte realizzò tentativi di democrazia diretta, legandosi ai fautori del liberalsocialismo, come il filosofo Guido Calogero. Capitini aveva una forte religiosità , sostanzialmente eterodossa, e i suoi Centri di orientamento sociale, e anche religioso, non incontrarono il favore dei politici né delle gerarchie ecclesiastiche. Venne infatti scomunicato, insieme ai suoi libri sulla «religione aperta»; in risposta si «autoscomunicò». La figura di Gandhi, e il suo assassinio nel 1948, ebbero per lui un forte significato simbolico, rafforzando ancor più il suo credo pacifista e non violento. Nel 1949, Capitini prese pubblicamente le difese del giovane Pietro Pinna, sotto processo al tribunale militare, sostenendone il diritto all’«obiezione di coscienza». Meno colpì l’immaginazione collettiva la sua adesione al vegetarianismo.
Il grande filologo Gianfranco Contini si accostò a Capitini nel 1935, attratto dalla sua forte personalità , dalla priorità che conferiva all’impegno etico, dalla religiosità non convenzionale. Per Contini, fu forse l’amicizia più importante, e durò sino alla morte di Capitini. Le lettere conservate dei due amici sono più di 250. Per quanto riguarda il giudizio di Contini su Capitini, basti questa affermazione, in una lettera del 1940: «La tua moralità , amicizia e forse santità sono da sempre fuor di dubbio quanto un a priori». Ma aggiungo l’incipit di un articolo dedicato all’amico: «Mi sarà difficile parlare di Aldo. Difficile, voglio dire, come scindere e trattare allo stato isolato un elemento essenzialissimo di me stesso».
Avere a disposizione il carteggio tra i due è una fortuna straordinaria: dobbiamo ora esserne grati alla Fondazione Ezio Franceschini (Un’amicizia in atto. Corrispondenza tra Gianfranco Contini e Aldo Capitini, 1935-1967, a cura di Adriana Chemello e Mauro Moretti, Edizioni del Galluzzo, pp. LXXIV-328, 52). Questa corrispondenza, agli inizi, rispecchia gli interessi e i modi di vita di due giovani (Contini era del 1912) che si avviano alle rispettive carriere. Si parla di viaggi per incontrarsi (l’uno abitando a Domodossola, l’altro a Perugia) o per far visita a studiosi interessanti; di letture e di lavori in corso. Non mancano tracce delle loro nevrosi, con scambi di ricette farmaceutiche (numerosi i sonniferi). Rilevante il tema della carriera universitaria: incarichi e cattedre disponibili, eventuali appoggi di persone autorevoli.
Colpisce anzi il fatto che una temporanea rottura tra Capitini e Contini (nel 1949) sia proprio dovuta a un’ingenuità o a un errore strategico del primo, che mandò in fumo, per il secondo, la possibilità di una cattedra alla Normale di Pisa, sede particolarmente ambita da Contini (ci arriverà , ma molti anni dopo). La rottura fu breve, però in tutte le lettere successive, tra l’altro molto più rare, il tono di Contini sembra ormai un po’ distaccato.
La corrispondenza, all’inizio piuttosto routinière, si fa vivace dopo la nomina di Contini all’Università di Friburgo, in Svizzera (1938). Nella lettera 41, per esempio, si sente l’aria di felice libertà di chi sino allora era vissuto nel chiuso, anche culturale, dell’Italia fascista. La guerra irrompe poi nel carteggio con una lettera (80) sui bombardamenti di Milano dell’agosto 1943; le notizie apocalittiche, indirette, e perciò in parte inesatte, s’intrecciano con un quadro delle comunicazioni ferroviarie, evidentemente sconvolte.
Con l’avvicinarsi della Liberazione, le lettere ci presentano le iniziative e le persone che la prepararono. Si parla del Cln, dei rapporti fra i partiti antifascisti, delle loro possibili o deprecabili alleanze. Contini, che aveva partecipato al governo della repubblica libera dell’Ossola, e che rivelò in quegli anni una vera vocazione di politico, mostra spesso un maggiore senso della concretezza rispetto al «teorico» Capitini, che del resto, fedele all’ideale della nonviolenza, non partecipò alla lotta contro gli occupanti. Le lettere di questo periodo sono fondamentali, perché ci immergono nei dibattiti dell’Italia tornata alla democrazia; le pagine dei due amici sono punteggiate di sigle dei nuovi partiti, oggi in parte dimenticate; e sono frequenti le notizie sui rapporti del Partito d’Azione, cui Contini aderiva, con le altre nuove formazioni politiche; sulla dialettica con i comunisti; sul ripresentarsi della secolare vocazione conservatrice italiana. Ha ragione Capitini a ricordare che la vittoria sul fascismo fu «la vittoria della minoranza che per vent’anni è stata antifascista». Di essere minoranza si accorse presto, e dopo pochi anni anche Contini: deluso, abbandonò qualunque attività politica.
Ciò non toglie che questo carteggio sia un documento importante dell’impegno fervido degli intellettuali antifascisti nell’Italia appena liberata. La loro passione si scontrò presto con l’inerzia e il timore del nuovo, con i pregiudizi e le posizioni acquisite. La lotta fu sempre più dura, e contro avversari sempre più forti. Non si dimentichi che al referendum del 1946 la monarchia, responsabile della complicità con il fascismo e della guerra, ottenne quasi undici milioni di voti.
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