Vivere e morire ad Aleppo

by Sergio Segio | 3 Gennaio 2013 9:19

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ALEPPO. UN UOMO pulisce il kalashnikov, mentre un altro, accanto a lui, sbuccia l’aglio per la minestra. Ha poggiato a terra il revolver e il lavoro a maglia: è una sciarpa a righe con i colori della guerriglia. Un fuocherello rischiara le pareti della casamatta, fino a pochi mesi fa negozio di “souvenir orientali e folcloristici” nella città  vecchia di Aleppo. La linea del fronte si dipana a zig zag poche centinaia di metri più in su, attraverso le viuzze del suq. Si sente passare un aereo. Il tizio con il kalashnikov si stupisce, da qualche giorno i bombardamenti si erano fatti più rari. Perché? C’è chi dice che le forze del regime sono mobilitate su un altro fronte, a Damasco o a Hama. O forse sono le difese antiaeree, che l’esercito ribelle finalmente è riuscito a procurarsi, a scoraggiare i decolli. L’altro, che ha ricominciato a sferruzzare, annuncia che due razzi poco prima hanno ucciso 18 persone, accanto all’aeroporto. Il regime cadrà , qui nessuno nutre molti dubbi al riguardo. Ma si ha l’impressione che i combattimenti si protrarranno per un’eternità , e al tempo stesso che potrebbero finire da un momento all’altro. Sono sei mesi che l’Esercito libero siriano è entrato ad Aleppo e ancora controlla poco più della metà  della città .
«In questo suq si vendeva ogni ben di Dio, tappeti, diamanti, oggetti di antiquariato », si inorgoglisce un elettricista. «Siete nel cuore della bella Aleppo, capitale economica della Siria». È seduto sul divano in una penombra gelida. Come in tutta la città  anche qui la corrente elettrica manca da due mesi; niente riscaldamento, acqua poca e non spesso. Si sente un colpo di mortaio cadere a poca distanza. L’elettricista non osa più girare per il suo appartamento da quando le due stanze in fondo sono state devastate dai combattimenti.
Dalla finestra sul muro di fronte si vede una scritta che proclama: «Bashar è il mio Dio». L’uomo precisa: non è che la gente del quartiere amasse effettivamente Bashar, quello che non amavano erano i fastidi.
Lui stesso otto anni fa era stato arrestato dalle forze di sicurezza del regime. L’avevano pestato per qualche giorno, poi l’avevano liberato in cambio di una «confessione» in cui ammetteva di essere un terrorista e di una banconota da 50 dollari fatta scivolare sotto il tavolo. Quell’episodio lo aveva rafforzato nella convinzione che nel Paese degli Assad bisognava essere parecchio stupidi per non limitarsi a badare ai fatti propri.
Il 20 luglio 2012 tutto il quartiere o quasi ha assistito con una sorta di stupore all’ingresso dei ribelli in città . Chi erano questi campagnoli che pretendevano di venirli a liberare con i sandali e i kalashnikov di seconda mano? Loro, gli abitanti di Aleppo, così fieri della loro carnagione bianca? L’elettricista era scappato via, come tutti, convinto che la cosa si sarebbe risolta in una settimana. Passati due mesi, l’esilio in Egitto aveva prosciugato tutti i risparmi ed eccolo di ritorno nel suo angolino di suq deserto, dove ormai vivono soltanto sette famiglie, sotto il controllo dell’Esercito libero.
Dall’altra parte del fronte, i cecchini del regime mandano messaggi: «Se attraversate, vi ammazziamo ». L’elettricista una volta ha provato a oltrepassare ufficialmente un posto di blocco. «Mi hanno guardato come una bestia perché vivo da questo lato del fronte: non ero più uno dei loro ». Allora ha deciso di fare amicizia con i ribelli. «Qui abbiamo una qatiba [unità  combattente] per bene, che vuol dire che è gente che non ruba».
Sembra che più nessuno eserciti il suo vero mestiere. Seduto su una cassa rovesciata, un sarto vende candele. Un informatico con la divisa dell’Esercito libero controlla le automobili. In un giardino pubblico, un meccanico si arrampica sugli alberi per tagliare legna da ardere. Un autista di autobus, visto che le linee di trasporto pubblico sono tutte ferme, vende a prezzo esorbitante benzina turca di contrabbando.
Ogni quartiere si è organizzato in un “consiglio civico”, basato su rapporti di vicinato, parentela, amicizia, dove ognuno deve innanzitutto conoscere l’altro e rispondere di lui, come se quarant’anni di dittatura avessero impregnato di diffidenza una società  intera. In un edificio di Tarik al-Bab, quartiere tranquillo, la gente recrimina a mezza bocca vedendo un soldato della guerriglia salire ai piani alti. «Che ci viene a fare qua? Bombarderanno l’edificio per colpa sua». Il soldato lo sa bene: «La gente ci fa grandi sorrisi, ma metà  degli abitanti del quartiere aspetta il ritorno di Bashar».
Alla scuola Mustafa al-Aissa, un gruppo di professori ha dovuto negoziare a lungo per ottenere che i soldati, che come in molti altri casi avevano espropriato l’edificio per farne una caserma, se ne andassero. Dopo un mese i bambini iscritti alla scuola elementare sono 550, ma il direttore Abu La’ai, 22 anni, rifiuta di prendere più di 200. «Almeno, se c’è un bombardamento, il massacro sarà  più limitato». Abu La’ai accetta di rispondere ad alcune domande sul sistema scolastico: sì, l’istruzione è uno dei pilastri del regime di Damasco e tutti i manuali recano una foto del presidente con scritto sotto: «Con Bashar, i bambini sono felici». Sì, alcuni insegnanti – non tutti – chiedono agli alunni di denunciare i genitori, ad esempio se guardano tv straniere. Sì, bisognerebbe cambiare tutto, anche i manuali scolastici. E precisa: «In ogni caso, i libri li bruciamo». Sono fatti così male? Si acciglia. Non ne può più di domande «che non sono le domande veramente importanti per noi adesso». I libri sono fatti male, certo, ma non è per questo che li bruciamo. Li bruciamo per riscaldarci.
Al piano di sotto una trentina di ragazzini scandisce «Hello, my friend » in un’aula così scura che non si riesce nemmeno a leggere quello che c’è scritto sulla lavagna. Quelli che hanno un cappotto non se lo sono tolto, la maggior parte ha le scarpe, ma senza calzini. Il mese scorso un donatore del quartiere ha dato 1.000 dollari. «Non ci abbiamo comprato quaderni, ma latte, perché nessuno dei bambini mangia prima di venire a scuola». Qualcuno ha la scabbia, tutti hanno i pidocchi e i casi di leishmaniosi sono sempre più numerosi. Invece di un nuovo insegnante, Abu La’ai preferirebbe un’infermiera.
La riapertura della scuola Mustafa al-Aissa è iniziativa della Lega di carità  sunnita, che ha messo insieme già  una cinquantina di insegnanti in dodici istituti. Si riuniscono più volte a settimana: per partecipare agli incontri le donne devono mettere il velo. Si è presentato il problema dei fondi e la Lega di carità  sunnita ha fatto il giro di Ong e istituzioni. Hanno rifiutato tutte, tranne una: il Fronte al-Nusra.
È un nome in cui ci si imbatte in continuazione in Siria, di questi tempi: nessuno è in grado di definirne con chiarezza i contorni, i giornalisti non sono benvenuti e gli Stati Uniti lo hanno appena inserito nell’elenco delle organizzazioni terroristiche. Il fenomeno è emerso un anno fa, in modo repentino, sotto forma di una qatib di combattenti agguerriti, sia siriani che stranieri, fautori di un islam sufficientemente radicale da attirare finanziamenti, in particolare da Arabia Saudita e Qatar.
La grande maggioranza dei ribelli siriani, decisa a difendere la sua “rivoluzione”, per molto tempo ha diffidato di questo gruppo. «Ma dopo un po’ non hai più scelta», considera un comandante dell’Esercito libero. «All’inizio avevamo un kalashnikov ogni due soldati. Poi siamo scesi a uno su dieci, e alla fine non avevamo più munizioni». Nessun Paese o istituzione accetta di impegnarsi per questi guerriglieri esangui, mentre Jabat al-Nusra distribuisce soldi, tanti soldi e in poco tempo. «Oggi la novità  è che il Fronte al-Nusra non applica più questa strategia solo in campo militare, ma in tutta la società  civile», riprende un insegnante.
Nel negozio di un falegname stanno organizzando una distribuzione di generi alimentari quando i telefoni cellulari improvvisamente si mettono tutti a suonare nello stesso momento. È un sms, di quelli che il Governo invia regolarmente a tutti gli abbonati della rete siriana, personalizzandoli in base alla regione: «Popolo di Aleppo, i terroristi sono tra di voi. Se non li combatterete, sarete bombardati. L’esercito è forte».
Il messaggio suscita l’ilarità  di Mustafa, traduttore dall’inglese. Anche lui qualche mese fa ha cercato di lanciare un “appello per Aleppo”, contattando decine di Ong internazionali attraverso internet. Ha trovato «la solitudine nel cuore del caos», dice.
People in Need, una piccola struttura della Repubblica Ceca, è stata la sola a rispondere, inviando 5.000 dollari e 50 tonnellate di farina tedesca. Secondo Mustafa, è l’unica associazione internazionale che ha una fonte di informazione in città . Quel giorno ci sono 300 pacchi da distribuire a 3.000 famiglie e bisogna scegliere, o almeno provarci. «Quand’è che i tuoi bambini hanno mangiato l’ultima volta?», chiede un volontario. Una donna in fila non risponde. Si vergogna. Più tardi mi dice che per la Siria vorrebbe uno Stato «che abbia qualcosa a che vedere con Dio». Cosa esattamente, non lo sa, ma «che ci portano di buono i partiti come quelli che avete in Europa o Bashar?». Chiediamo al volontario se la situazione odierna di Aleppo possa prefigurare la Siria futura, con queste spinte religiose nella società . Alza le spalle. «Ci si capisce sempre meno. Qui viviamo in un’altra dimensione».
Sono le sei del pomeriggio, fra poco sarà  ora di andare a dormire. «Che altro c’è da fare?», ride uno studente di fronte al Fiore di Aleppo, il miglior kebab della città , che offre «tutto quello che c’è di buono, perfino una sposa». E aggiunge: «Ridatemi almeno Facebook e la mia fidanzata, che vive dall’altro lato del fronte».
Sono ripresi i bombardamenti sul “Quartiere della gioventù”, un complesso residenziale che il regime aveva realizzato poco tempo prima per funzionari e privilegiati. I residenti sono fuggiti e ci si sono installati dei profughi. Più in basso, nel quartiere di Salaheddin, cinque bambini sono seduti di fronte a un tegame spento. Per gli ospiti ci si ingegna per offrire un caffè: una donna accende un fuoco sul pianerottolo. L’acqua ci mette un’infinità  a riscaldarsi. La stanza è vuota, tutto quello che si poteva vendere è stato venduto. Si chiedono notizie di un vicino. È morto. E quell’altro? No, lui non è morto. Ferito. Ci si rallegra per lui.
Il padre racconta che inizialmente si erano rifugiati da parenti, nella regione di Idlib. Anche là  bombardano, con tanta intensità  che a volte i ribelli sono costretti a ripiegare, cosa che qui non succede. E quando la guerriglia si ritira «i soldati dell’esercito regolare invadono le strade, dove possono entrano, a casaccio, e ammazzano le persone, a volte a coltellate ». Tutti scappano, inseguiti da un elicottero. La cosa va avanti qualche ora, poi l’Esercito libero ritorna. In un mese hanno vissuto tre volte offensive del genere. Nessuno ne parla e nessuno sa veramente che cosa succede laggiù: la zona – come molte altre in Siria – è inaccessibile per i giornalisti. Il padre indica con un gesto della mano la stanza spoglia, le strade quasi totalmente in rovina e battezzate il “quartiere martire” di Aleppo. Sospiro di contentezza: «Qui si sta meglio». Una ventina di famiglie sono già  tornate a Salaheddin. Altre hanno annunciato che torneranno.
(Copyright Le Monde – la Repubblica – Traduzione di Fabio Galimberti)

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