by Sergio Segio | 6 Gennaio 2013 8:24
A nord-est, anche l’altra faccia della sussidiarietà ospedaliera apre una vistosa crepa nell’eredità che Pdl&Lega hanno raccolto dal doge Giancarlo Galan. Politicamente, la sanità veneta del Duemila è governata da Flavio Tosi. Assessore regionale più che sensibile alle ambizioni della sua Verona, il sindaco lighista ha continuato a controllare ospedali e Usl, appalti e nomine, spese e investimenti per interposta persona. A Leonardo Padrin (ex Dc doroteo, traslocato nel Pdl via Forza Italia, un passato da presidente della Compagnia delle Opere) restano le briciole: presidente della Commissione Sanità , applica il consociativismo con le diverse anime del Partito democratico e l’Udc di Toni De Poli.
Le nomine dei direttori generali – appena firmate dal governatore Luca Zaia – sono lo specchio fedele del Risiko di interessi del centrodestra in precario equilibrio: conferme nei ruoli-chiave, traslochi per altri, sporadiche «rivoluzioni» in vero stile decisionista e «padano». Un’indiretta conferma che fino al 2015 la sanità veneta sconterà il campanilismo a scapito delle buone pratiche più mediatiche che reali. Declina irrimediabilmente l’ hub di Padova; si rafforza il polo veronese, che ha già integrato Ateneo e ospedali; resistono le… cittadelle di Marca e i feudi vicentini; annaspa il Veneziano con la cattedrale dell’ospedale all’Angelo impietosamente «radiografata» in televisione da Report . nità vacilla al pari di quello griffato Formigoni. Lo ammette l’ultima delibera di pianificazione della giunta Zaia: sono 19.127 i posti letto (di cui l’11% riservato alle prestazioni in day hospital ), e «il numero assoluto di pazienti dimessi dagli ospedali del Veneto è in progressiva diminuzione a partire dal 2001, con un calo del 17% nel periodo 2000-2009». Potrebbe sembrare un’acuta scelta gestionale, magari ispirata al federalismo versione cura e assistenza. Peccato che negli oltre 8 miliardi di euro (quasi 1.800 euro pro capite) si annidino 3,1 miliardi di spesa a favore di enti, strutture e istituti convenzionati o accreditati: una «rete» privata (spesso anche religiosa) parallela al servizio pubblico.
Forse vale la pena rileggersi con la necessaria attenzione le 114 pagine dell’Indagine sull’assistenza sanitaria nel Veneto “licenziata” dalla sezione della Corte dei Conti presieduta da Enrica Del Vicario Cossu nell’adunanza del 4 Il modello veneto vacilla aprile 2012, alla presenza dell’assessore Luca Coletto e dello staff dirigenziale della Regione. Fa squillare l’allarme rosso rispetto alle fonti di finanziamento: «Si osserva la preoccupante variazione negativa che subisce il patrimonio netto complessivo delle 24 aziende sanitarie venete che passa dai 154,1 milioni del 2009 ai 6,4 milioni del 2010, con una riduzione del 95,8%. L’erosione del capitale netto è dovuto alle perdite di esercizio che, seppur in progressiva riduzione nell’ultimo triennio, si susseguono ormai da anni riducendone il volume e provocando di conseguenza una pesante dipendenza da terzi». Insomma, le Usl del Veneto si rivelavano sull’orlo del crac gestionale: la Corte dei Conti punta l’indice sul 60% dei debiti pari ad oltre 2,5 miliardi di euro nei confronti dei fornitori e soprattutto sulla cifra record (più 113,5% rispetto al 2009) dei debiti verso la Regione per finanziamenti. Bilanci in rosso I conti non tornano nemmeno a nord-est. La «sentenza» è impietosa: metà delle Usl scrivono a bilancio un patrimonio netto in rosso. E si tratta di cifre che avrebbero dovuto mettere i brividi ai direttori generali che amministrano soldi pubblici, in ospedali pubblici per conto del servizio pubblico. Antonio Padoan, manager dell’Usl 12 veneziana aveva chiuso il 2010 con 409,7 milioni di debiti di cui ben 313,4 per fatture non saldate. Maria Giuseppina Bonavina, dg dell’Usl 20 di Verona, ha firmato un bilancio con 389,5 milioni di debiti. Ma il record spetta all’inossidabile Adriano Cestrone al vertice dell’Azienda ospedaliera di Padova: 433,6 milioni di debiti accumulati nella gestione dell’«eccellenza» sanitaria con un’esposizione di 252,9 milioni nei confronti dei fornitori, pagati ormai ad oltre 400 giorni dalla data prevista.
Le «fabbriche» del Veneto
Del resto, il «modello veneto» sono i top manager della sanità voluti (e premiati…) da Galan che, come nelle Grandi Opere, ha coltivato laicamente la comunione fra pubblico e privato con la liberazione del project financing , della ristorazione su misura, della manutenzione coop, delle polizze serenissime. Gli ospedali sono già le ultime, vere, grandi «fabbriche» del Veneto. Con un indotto di servizi da cannibalizzare. Perché non alimentare anche il ciclo del mattone? Ecco la cura del cemento che la giunta Zaia si è trovata a dover prescrivere in ogni provincia: nuovi ospedali clonati con la procedura sperimentata a Mestre traslocando lo storico Umberto I in via don Giussani. Uno già spianato nella Bassa padovana, un altro solo immaginato a Chioggia. E in attesa di capire se, come e quando si concretizzerà la moderna cittadella della sanità di Padova (non più da 1,5 miliardi, perché ne servono solo 600…) nell’area limitrofa allo stadio delle tangenti – un paio di project alimentano preoccupazioni e sospetti. I nuovi ospedali Treviso, ospedale Ca’ Foncello versione Duemila: un cantiere da 224 milioni. Appalto conquistato da una cordata dal nome eloquente (Finanza e progetti di Verona), capofila di Bovis e Siram di Milano, Lend Lease Construction di Londra, la vicentina Carron e Sielv di Fossò.
Erano arrivate altre cinque offerte di altrettante associazioni temporanee d’impresa con società , consorzi e coop che rispuntano spesso e volentieri dall’Expo di Milano alla «rigenerazione» del porto di Trieste, dalle infrastrutture dell’Emilia alle mega-operazioni immobiliari di Verona. In gara per il nuovo ospedale di Treviso, c’erano Astaldi di Roma (con la veneziana Mantovani e i ciellini di Mattioli), la friulana Rizzani de Eccher (con Technit di Milano, le trevigiane Guaraldo e Tonon, la vicentina Gemmo), Condotte di Roma (con le veronesi Mazzi e Parolini), la vicentina Maltauro (insieme a CCC di Bologna, Intercantieri Vittadello, Gelmini Spa, Ciab di Bologna, Manutencoop, Servizi ospedalieri di Ferrara, Serenissima, Coopservice e Servizi Italia) e infine Toto di Chieti Scalo (Cev di Treviso, Guerrato di Rovigo, Camst di Villanova di Castenaso, Lavanderia industriale Cipelli di Borghetto Lodigiano). Santorso di Schio, provincia di Vicenza: 160 milioni è il costo del locale nosocomio già realizzato dai privati. Un vero affare per Summano Sanità : è la SpA che riunisce Gemmo, Mantovani, Palladio Finanziaria, le cooperative rosse Cmb e Ccc, Serenissima Ristorazione, lo studio Altieri, Coopservice. Sintetizza Federico Martelletto sindacalista dell’Usb a nome di chi lavora in ospedale (mentre una petizione alla Regione e un esposto alla Corte dei conti segnalano le clausole capestro del contratto tutt’altro che trasparente): «È impressionante l’enorme cifra che ora deve sborsare ogni anno l’Usl 4: di certo ben oltre 20 milioni di euro per 24 anni. Era un’azienda sanitaria fra le più virtuose del Veneto: così forse alla fine non resterà niente di pubblico. Summano ha fiutato il business e calcola di guadagnare almeno dieci volte tanto rispetto alle risorse investite…».
Attendere, prego
Proprio l’evidenza pubblica riaccende, per molti versi, l’unica spia sulla gestione «parallela» del servizio sanitario e assistenziale. La limpidezza degli atti amministrativi nelle Usl non è così scontata e, in alcuni casi, nemmeno l’accesso previsto dalla legge viene rispettato. I siti Internet si rivelano a volte clamorosamente non aggiornati o, peggio, concepiti proprio per inabissare delibere, incarichi, appalti, consulenze e gare. È stato lo stesso governatore Zaia ad infuriarsi, recentemente, di fronte a segnalazioni di liste d’attesa… fuori tempo massimo. I pazienti più scaltri si rivolgono alle direzioni sanitarie o all’ufficio relazioni con il pubblico, tuttavia anziani e stranieri si perdono nei labirinti della burocrazia. E i call center esternalizzati rischiano di trasformarsi in boomerang al confronto con i poliambulatori privati. In buona sostanza, la media delle prestazioni in Veneto si dimostra più che in linea rispetto agli standard nazionali. Ma le statistiche si reggono grazie alle convenzioni, mentre è assodato che il «modello» non calamita più lo stesso esercito di malati «in fuga» da altre regioni. E si profila all’orizzonte un nuovo giro di vite: circa 2.000 posti letto da tagliare; ospedali da chiudere, perché piccoli, periferici o doppioni di quelli troppo vicini; gli Atenei di Verona e Padova sempre più in competizione per la leadership nella medicina come nella ricerca; la spending review del governo Monti fa il paio con i nuovi budget di spesa imposti negli ultimi due anni dalla giunta Zaia; gli specializzandi (assunti dalla Regione a 1.800 euro al mese) che non basteranno a garantire il ricambio naturale in alcuni reparti-chiave e nei servizi territoriali.
Una partita a scacchi che si gioca contemporaneamente su più tavoli, non solo istituzionali. Moltissimo dipenderà dalle «schede ospedaliere» affidate ai tecnici della Regione: fino alle elezioni la politica faticherà ad adottarle nero su bianco. In ballo, fra l’altro, il futuro di 158 primari che costano 200 mila euro all’anno. Senza la loro conferma, chiudono i reparti… La sanità del lombardo-veneto diventerà il primo laboratorio degli sponsor della «ricetta americana»? Una risonanza di servizio pubblico? O la definitiva degenerazione degli interessi privati?
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