UNO SPIRAGLIO DI PACE

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Ne è un raggio di luce che si accende sul grigio, anzi cupo, panorama mediorientale. Non è insomma un passo decisivo verso la soluzione dei principali e angoscianti problemi quali sono la questione palestinese e la minaccia nucleare iraniana. Sono in pochi a farsi delle illusioni. Non se ne fanno neppure coloro che si rallegrano per la risicata, corta vittoria di Benjamin Netanyahu, vista come l’inizio del suo declino politico. Attendono con evidente soddisfazione i tormentati compromessi cui il primo ministro incaricato dovrà  scendere al fine di creare una maggioranza parlamentare. E soprattutto apprezzano l’arresto della crescita nazional-religiosa, ai loro occhi laici un’ombra minacciosa sulla democrazia israeliana. Ma gli avversari di Netanyahu pensano che lo scossone elettorale non sarà  sufficiente per smuovere Israele dallo statu quo in cui è trincerato, protetto da una sofisticata superiorità  militare, dalla dinamica della sua società  tecnologicamente avanzata, e dall’alleanza con la superpotenza americana. Un’alleanza resistente a tutte le polemiche, anche allo sgarbo di Netanyahu di novembre, quando si è apertamente schierato contro Obama, durante la campagna per la rielezione. Israele è ed è destinato per Washington a restare un irrinunciabile “fortino occidentale” nel Medio Oriente instabile e complicato. (Ciò non toglie che Obama si sia in cuor suo rallegrato per lo schiaffo elettorale ricevuto da Netanyahu, del quale non ha una grande stima).
Ma perché parlare di una boccata d’aria fresca se prevale tanto scetticismo sugli effetti positivi del risultato elettorale? In barba a tutti i pronostici, l’ex giornalista televisivo Yair Lapid ha conquistato diciannove seggi nella Knesset, che ne conta centoventi. Quindi ha adesso in mano la chiave della nuova coalizione di governo, perché con i suoi soli trentun seggi Benjamin Metanyahu avrà  bisogno di lui per creare una maggioranza parlamentare. Ma votando per Lapid gli israeliani non hanno puntato soltanto su un personaggio nuovo, ed anche giovane, perché Lapid non dimostra neppure i quarantanove anni che ha, ma hanno scelto l’apolitica, qualcosa di diverso dal soffocante dibattito in cui l’esigenza della sicurezza, usata anche come un ricatto, è sempre presente, più o meno sottintesa. Il voto a Yair Lapid è stata un’evasione dalla spirale della paura. Ed anche dalla politica. Un modo di mandare al diavolo la classe dominante, mi dice con espressioni più marcate un intellettuale di Tel Aviv. Il quale confessa di avere votato per Lapid con quell’intenzione. Non perché l’apprezza come uomo politico. Di politica l’ex giornalista non se ne è in effetti quasi mai occupato fino a qualche mese fa, quando ha deciso di affrontare le elezioni. È stato un animatore intelligente del reality show alla tv. Il suo carisma ha origini telegeniche. Hanno contribuito alla sua popolarità  l’aspetto e la simpatia. La sua rubrica sul settimanale Yediot Ahronot, il quotidiano più diffuso, aveva accenti più personali che politici e aveva come titolo “Dov’è il denaro”.
Gli autori dei sondaggi gli assegnavano la metà  dei seggi poi conquistati pensando che i temi della sua campagna elettorale fossero banali, marginali, fossero quelli di una società  normale, ad esempio le tasse imposte ai ceti medi urbani, su cui gravano le spese pubbliche, e in particolare quelle in favore dei religiosi, disoccupati volontari, perché dediti allo studio della Torah. Yair Lapid ha apertamente deplorato, e si è impegnato a combatterla, l’esenzione dal servizio militare degli studenti religiosi ortodossi. Perché noi siamo soggetti al fisco e loro sono assistiti? L’argomento ha avuto successo nella laica Tel Aviv, in generale nel ceto medio, emarginato dalla crescente sperequazione nei redditi. I giovani “indignati”, nel 2011 animatori di imponenti manifestazioni di protesta contro la situazione economica, sono stati i grandi elettori di Lapid nel 2013. La boccata di ossigeno è stata questa: appoggiare un candidato con la pacifica aureola della popolarità  televisiva, ma in politica una faccia nuova, persino ingenua, che affronta, appunto, le preoccupazioni di una società  normale, non assediata, non angosciata dal mondo circostante. Il partito di Lapid, collocato al centro dello schieramento politico, ha un titolo candido, significativo: “C’è un futuro”.
Per Yair Lapid la questione palestinese non dovrebbe costituire un grave problema nel caso di una partecipazione a un governo con Netanyahu primo ministro, e quindi a fianco del Likud, formazione di destra, e di “Casa Israele”, il partito ultranazionalista di Liberman, esponente della comunità  russa. I quali non hanno nelle loro intenzioni una ripresa rapida del processo di pace. Lui, Lapid, è favorevole all’idea di uno Stato palestinese, come del resto è capitato di esserlo anche a Netanyahu almeno in un’occasione; e al tempo stesso, sempre come Netanyahu, Lapid è contro lo smantellamento delle colonie nei territori occupati e si oppone alla divisione di Gerusalemme. In sostanza non si pone troppo la questione palestinese. La schiva. Avrà  invece un serio problema con il partito religioso Shas, indispensabile alla vagheggiata coalizione guidata da Netanyahu, che esige l’esenzione dal servizio militare obbligatorio degli studenti religiosi. E naturalmente anche le sovvenzioni alle scuole in cui si studia la Torah, condannate da Lapid, perché appesantiscono le tasse dei ceti medi. Questi sono i temi che hanno favorito il successo dell’ex giornalista televisivo.
Il diciannovesimo voto politico dalla nascita dello Stato ebraico non cambia la situazione mediorientale, ma ha fermato la svolta a destra della società  israeliana. E quindi apre qualche spiraglio. Il successo dei partiti centristi, non solo di “C’è un futuro “ di Yair Lapid, ma anche del “Movimento” di Tzipi Livni, l’ex ministro degli esteri, che ha conquistato sette seggi, e l’affermazione di Meretz, la formazione di sinistra, che ne ha ottenuti sei, il doppio di quelli che aveva, sono piccoli squarci in un orizzonte politico fino a pochi giorni fa oscurato dall’annunciato successo dei partiti del rifiuto di ogni concessione ai palestinesi. Lo smacco subito obbligherà  Netanyahu a venire a patti con partiti meno intransigenti del suo, anche se non ben determinati sulle grandi questioni. Il primo ministro ha perduto un quarto dei suoi seggi in Parlamento (da quarantadue è sceso a trentuno) perché la formazione di estrema destra “Focolare ebraico”, fondata da Naftali Bennet, campione dell’hi-tech e patrono dei coloni, gli ha sottratto l’ala più intransigente del suo elettorato. Ma la fragilità  di Netanyahu risulta ancora più evidente se si pensa che il suo partito, il Likud, ha conquistato soltanto venti seggi se si sottraggono quelli dell’ultra nazionalista Liberman, suo alleato provvisorio. Egli si appresta a costruire una maggioranza da una posizione di debolezza e quindi si può dubitare che riesca. L’aiuta il fatto che, pur essendosi creato un equilibrio tra forze di destra e di sinistra alla Knesset, quest’ultima, la sinistra, non è in grado di offrire un’alternativa. Il partito laburista, grande protagonista della storia di Israele, ha ottenuto quindici seggi, meno del telegenico Lapid. La destra è stata fermata, ma una vera sinistra capace di offrire un cambiamento non c’è ancora.


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