by Sergio Segio | 16 Gennaio 2013 7:54
Nuova edizione di un libro dimenticato che mostra la sua attualità nel capitalismo del lavoro cognitivo Francia. Maggio 1974. In linea con una grande tradizione di giornalismo culturale, José Marchand porta davanti agli schermi televisivi del suo paese uno dei più importanti filosofi marxisti del Novecento: Ernst Bloch. Nella lunga intervista rilasciata al giornalista, il filosofo tedesco ripercorre tutte le tappe di una vita scandita da amicizie, opere ed eventi che hanno segnato profondamente il secolo passato. Gli eventi. Le due guerre mondiali; la fuga in Svizzera per sfuggire alla prima poiché pacifista radicale, quella in America per sottrarsi al totalitarismo tedesco perché ebreo e comunista; il trasferimento, alla fine del Secondo conflitto, nella Rdt (l’ex Repubblica Democratica Tedesca); il mancato rientro in questi stessi territori dopo la costruzione del muro di Berlino (si trovava in Baviera quando la divisione venne alzata); l’ultimo periodo a Tubinga.
Le opere. In questo vortice di eventi Bloch scrive opere decisive come Spirito dell’utopia (1918) e Il Principio Speranza (1959), attraverso cui cerca di arricchire il marxismo con categorie inconsuete poiché per nulla economicistiche quali, per l’appunto, la speranza e l’utopia. Queste, nelle loro definizioni più forti e suggestive rappresentano, la prima non un «affetto, in opposizione alla paura, bensì speranza come atto cognitivo, come atto di conoscenza»; la seconda «una realtà oggettiva e reale. Rappresenta un principio di lotta (…) Nell’utopia ritroviamo la rivoluzione, l’apocalisse e la morte».
Le amicizie. Decisivi, nella formazione di questo dispositivo di pensiero, l’ambiente culturale berlinese degli anni Venti del Novecento in cui Bloch si muove. In primo luogo, il sodalizio con l’altro grande marxista del secolo, Gyà¶rgy Lukà¡cs. Poi, gli incontri con quei filosofi che fonderanno e gireranno attorno all’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte (o, come amava ripetere, per la «falsificazione» sociale, trasformando l’originale Sozialforschung in Sozialfà¤lschung): Theodor W. Adorno, Siegfried Kracauer e Walter Benjamin. Infine, la figura di notevole prestigio intellettuale pubblico della Berlino di quegli anni con cui Bloch si incontra e scontra: Georg Simmel, fondatore della sociologia. Nel corso dell’intervista televisiva rilasciata a Marchand, il filosofo marxista parla di tutto ciò e di molto altro. Eppure, qualcosa non dice. Cosa e perché?
L’editore Mimesis, con il titolo La filosofia di Kant (traduzione e cura di Vincenzo Scaloni), ha da poco mandato in libreria le lezioni tenute da Bloch sull’argomento negli anni compresi dal 1951 al 1956. Risalgono al periodo in cui insegnava all’Università di Lipsia, nella Germania dell’Est dove dirigeva, presso l’Università Karl Marx, l’Istituto di filosofia.
Dal testo, e dai risultati delle ricerche degli specialisti, si deduce il ruolo centrale svolto da Kant nell’intero dispositivo di pensiero blochiano. Stando così le cose, c’è da chiedersi perché, nel momento di massima esposizione mediale – una lunga intervista per la televisione francese – Bloch, ricordando quasi tutti i suoi referenti filosofici, non menzioni proprio Kant. Mentre non lesina continui riconoscimenti all’amatissimo Hegel, al quale aveva dedicato la monografia Soggetto-Oggetto, all’autore della Critica della ragion pura non dedica neanche un pallido ricordo. In più, parlando degli gli anni di insegnamento a Lipsia dice di aver tenuto «tre corsi di storia della filosofia da Talete fino a Heidegger», non quello egualmente importante e impegnativo su Kant.
Questa mancanza sembra tanto più significativa quanto più si pensa al tono «intimo» che Bloch ha voluto dare all’intervista: «Vorrei parlare come se fossi tra amici e raccontassi loro qualcosa della mia vita e del mio lavoro». Da questa vita e da questo lavoro, però, davanti alle telecamere, Kant è escluso.
L’uscita di queste lezioni kantiane, allora, sembra riportare in primo piano tale mancanza. Volendo usare metaforicamente il linguaggio freudiano, si potrebbe dire che La filosofia di Kant faccia riemergere ciò che Bloch ha rimosso nel corso dell’intervista televisiva, rimozione che solo ora, nell’attuale fase di trasformazione strutturale del lavoro da materiale a immateriale, diventa pienamente comprensibile smettendo, così, di essere rimossa. Sì perché l’indubbia importanza di questo libro sta tutta qui, nel modo in cui Bloch, inaspettatamente, pone il lavoro, o meglio, un certo tipo di lavoro, quello cognitivo, al centro di uno dei passaggi più difficili della Critica della ragion pura. Solo insistendo su questa dimensione di teoria sociale il testo si collega alla nostra attualità , diversamente rimane uno strumento, prezioso sì, ma confinato all’interesse specialistico e di quanti vogliano introdursi agevolmente nella filosofia kantiana (da questo punto di vista le lezioni di Bloch sono insuperabili poiché si sviluppano a ridosso dell’intera opera di Kant, tenendo assieme chiarezza e complessità ).
Il passaggio in questione è di ordine epistemologico, riguarda, come gran parte della Critica della ragion pura, problemi di teoria della conoscenza. Lì dove Kant designa come «operazione dell’intelletto» quella compiuta dal soggetto di congiungere nella sua coscienza la molteplicità della rappresentazioni dategli dall’intuizione, Bloch, da marxista, vi vede «tematizzato il fattore lavoro, il fattore soggettivo nella conoscenza». In questa sintetizzazione del molteplice nel concettuale, l’unico modo che per Kant abbiamo di conoscere l’esperienza e di porre così il mondo Bloch riconosce un’attività strettamente produttiva e costruttiva del soggetto, un vero e proprio lavoro. Questo lavoro, però, riguarda la conoscenza, è «solo» cognitivo.
Molto probabilmente sta qui la ragione della rimozione di Kant nel corso dell’intervista televisiva. Dovendo «esporsi» su di un filosofo, Hegel assicurava maggiori sicurezze. Bloch, infatti, nella monografia Soggetto-Oggetto, di cui parla appassionatamente a Marchand, aveva spostato il centro di gravità della suddetta coppia di categorie, verso il soggetto. Alla fine degli anni Quaranta del Novecento, il libro esce nel 1948 in Messico tradotto in spagnolo, per un filosofo marxista questo soggetto non poteva essere altro che la classe operaia sovietica, il cui modello di lavoro era ancora la grande fabbrica che produceva a livello planetario. Va da sé che di fronte alla triade Classe-Fabbrica-Stato e al relativo modello di lavoro che la sostiene, quello cognitivo kantiano è destinato, e anche giustamente visto il momento storico in cui Bloch lo definisce, alla rimozione.
Eppure, oggi ritorna. Solo ora possiamo vedere il «fattore soggettivo nella conoscenza» di cui ci parla Bloch pensando alle operazioni intellettive di connessione e sintesi svolte dal soggetto kantiano, per quello che è: un modello di lavoro immateriale, uno di quelli che quotidianamente si «eseguono» negli apparati di comunicazione. Lo stesso a cui si è attenuto Bloch quando, in televisione, nel corso dell’intervista rilasciata a Marchand, non ha fatto altro che connettere i vari momenti della sua vita e sintetizzare il senso complessivo della sua opera. Così facendo le ha trasformate in un bene immateriale destinato ad un grande pubblico.
Questa correlazione tra teoria della conoscenza, nuovi modelli di lavoro e scienza sociale ci è chiara solamente oggi che i media hanno dispiegato tutta la loro potenza, non da ultima la rete, e che la comunicazione è diventata uno dei momenti propulsivi dello sviluppo capitalistico contemporaneo.
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