by Sergio Segio | 9 Gennaio 2013 11:46
Tutto è sembrato ricomporsi in questi giorni in una sorta di gioco interno a un sistema scarsamente dialogante con l’impellenza dei bisogni concreti di larghi settori in sofferenza e anche con le potenzialità di un mondo giovanile che non trova possibilità di essere protagonista, ristretto nella condizione di precarietà sociale, oltre che economica e soggettiva.
L’Europa irrompe condannando l’Italia per violazione di quell’articolo 3 della Convenzione per la tutela dei diritti umani che vieta trattamenti e pene inumani o degradanti. E lo fa a partire dallo strutturale sovraffollamento delle carceri nel nostro Paese. Che il tema sia urgente è noto e tutti ne convengono a parole: più volte il presidente della Repubblica ha definito la situazione attuale non degna della civiltà del nostro contesto sociale e lo stesso governo aveva dichiarato già nel 2010 lo «stato di emergenza» di fronte a una situazione così grave.
Quest’ultima condanna però non è semplicemente una nuova sentenza che si aggiunge alle altre, perché la Corte chiarisce che il problema del sovraffollamento inaccettabile qui da noi è strutturale e proprio per questo la sua è una cosiddetta «sentenza pilota», che fa da guida alle tante altre che giacciono in giudizio. Inoltre, chiarisce che nella situazione attuale il detenuto italiano non ha strumenti efficaci per vedere sanata la violazione del suo diritto a condizioni dignitose, essendo la via del ricorso interno priva di effettività .
La Corte, infine, dà un anno di tempo all’Italia per porre fine alla situazione presente, impegnandosi nel frattempo a sospendere i casi che dovessero giungerle e che denunciassero condizioni dello stesso tipo.
Detta, quindi, un’altra agenda al futuro governo, che si sovrappone a quelle di cui molto si discute: lo fa definendo una priorità che richiederà di essere affrontata in tempi molto rapidi se non si vorrà incorrere in sanzioni ben più onerose, dati i molti casi pendenti, e soprattutto se non si vorrà essere additati come un paese che viola quegli obblighi non in maniera episodica ma strutturale. La stessa presidente di sezione della Corte, che nel primo dei casi di questo tipo, nel 2009, si era espressa in modo dissenziente a favore dell’Italia questa volta precisa, in una nota annessa alla sentenza, di aver votato per la condanna perché da allora nulla si è fatto e il problema è diventato di sistema.
Questa è l’Europa che rappresenta il sentire di una costruzione possibile che riponga al centro la tutela dei diritti fondamentali di tutti, anche di chi ha commesso errori e che non accetta di regredire nella pre-modernità sulla spinta di tagli di risorse.
Ma, proprio l’impostazione che la sentenza dà alla «questione carcere» rimbalza sulla responsabilità politica dell’assenza di questo tema da programmi, coalizioni, candidature, futuro governo: il tema è rimasto nel dibattito – grazie alla testimonianza di Pannella – solo in una duplice versione, quella umanitaria e quella di adesione o meno all’adozione di un provvedimento di clemenza.
Due dimensioni importanti ma che non ne colgono pienamente la matrice politica perché questa risiede nell’essere il carcere evidenza tangibile del sistema di giustizia e questo, a sua volta, della modalità di misurarsi con le asperità delle società complesse. Rinchiudere, quasi nascondere in quel luogo detentivo, anche al di là della tollerabilità delle condizioni, è stata la modalità con cui da molti anni ci si è misurati con tale complessità . Rinchiudere è stato il messaggio falsamente rassicurante lanciato più volte in funzione della ricerca di un adrenalico consenso elettorale. Senza costruire politiche e senza capire che si andava così rinchiudendo anche la nostra dimensione civile.
Solo se la campagna elettorale che si apre saprà cogliere la centralità del tema dei diritti, la politica tornerà a svolgere il proprio ruolo e non si limiterà più alla gestione ragionieristica o, peggio, «emergenziale» dell’esistente.
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