Un Risorgimento senza retorica

by Sergio Segio | 3 Gennaio 2013 9:32

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Nei due libri, e per i due autori, nessuna pretesa alla pseudo-oggettività  del resoconto Con Pro patria (Einaudi, 2012), testo portato nei teatri dal 2011, anno del 150° dell’Unità  d’Italia, Ascanio Celestini sottrae il Risorgimento alla retorica delle celebrazioni applicandovi la propria: che è una retorica del reietto, dello scemo, della pecora nera, e, in questo caso particolare, dell’erbivoro, ossia dell’ergastolano (cui l’autore presta di passaggio il proprio nome), il quale avendo come interlocutore il fantasma di Mazzini prepara un discorso sul Risorgimento e sulla galera; una retorica che è insieme, in virtù del posizionamento a margine oltre che dell’universo risorgimentale, di lotta e di rivoluzione.
In modo dissimile, per stile maggiormente lavorato e per dissimulazione ideologica, ma in fondo non dissonante, opera un altro dei grandi monologanti della letteratura italiana più recente, Paolo Nori, nel suo Garibaldi fu ferito (seguito da E noi?, I libri della Domenica – Il Sole 24 Ore, 2012): qui, piuttosto che alla pecora nera, ci si affida all’intellettuale di provincia, alle prese con una percussiva affettazione di modestia (già  incorporata nello stile molto lavorato di cui sopra), che è poi lo stesso Nori (in nulla diverso dall’alter ego dei suoi libri più noti, Learco Ferrari) invitato a Carpi in occasione di un festival di filosofia per pronunciare un suo discorso sul Risorgimento.
«Discorso» è parola chiave di questi due libri (e di questi due autori, in generale), che non vogliono pretendere alla pseudo-oggettività  del resoconto, del racconto, della storia, e revocano continuamente in dubbio ciò che riferiscono dichiarando fonti inaffidabili, difetti di memoria, tradizioni narrative inattendibili. Il loro è lo schietto manifestarsi di un pensiero personale, di un punto di vista, ovvero appunto un discorso.
La storia si fa allora contro-storia, e si oppone alla pratica istituzionalmente prediletta della sua riscrittura secondo un paradigma ben esemplificato dal Garibaldi pubblicitario di Neri Marcorè (quello che «ha una statua in ogni città »), con le rimozioni opportune. Il contro-paradigma è dato da un piccolo canone – Le armi l’amore di Emilio Tadini e Aprire il fuoco di Luciano Bianciardi (se ne occuperà , affiancando loro il contro-passato di Guido Morselli, le apocalissi di Paolo Volponi e le contro-narrazioni di DeLillo & Co., il numero 51 de «il verri» in uscita a febbraio) – che piega le vicende risorgimentali, forzandone la connessione col presente, a occasione di riflessione epistemologica (Tadini per Nori) e di sprone rivoluzionario (Bianciardi per Celestini). Quel piccolo canone risulta così rinnovato, dopo che negli ultimi quarant’anni quando una storia ha dovuto essere riscritta – prendiamo un libro memorabile e dalla datazione emblematica – si è trattato di quella solo lontana e politica indirettamente che Tommaso Pincio ha pensato al volgere del millennio nel suo Lo spazio sfinito, abboccandoci con un passato esotico (d’America) e dal sapore di futuro già  consumato, sfinito, ma che forse valeva anche (al di là  delle intenzioni dell’autore) come una centrifugazione da far girar la testa a George Marshall e rispedirlo orbitalmente al di là  dell’Atlantico. Di fatto, mentre il modello occidentale (quel modello occidentale), andato in default gli Usa in testa, consuma il proprio residuo di egemonia ed energia, con il perverso o solo dialettico cupio dissolvi (modello che a sua volta, è vero, si era costruito facendo perno sull’autodistruzione di mezzo Novecento: che tuttavia, per quanto estesa, era stata topica, limitata al vecchio continente, e quindi tale da permettere alla parte d’occidente dislocata e più giovane – ancora capace, allora, di esercitare un minimo di controllo razionale sulla propria volontà  di dominio – di trarre d’impaccio tutti, e soprattutto profitti e potere per sé), oggi si può ritornare entro le frontiere patrie e perfino municipali (i centri emiliani di Nori) a riscrivere l’accaduto riacciuffandolo al suo accadere.
Ciò per cui serve non lo storico quanto l’uomo comune (i titoli Pro patria e Garibaldi fu ferito attingono al mondo del pallone e del canto popolare) se non il naà¯f – un magazziniere, un ergastolano, un matto -, chi elementarmente (ma con malcelato acume, e con qualche eccesso colto nel caso di Celestini, che per rendere l’accozzaglia di libri disponibili in carcere non esita a usare Wittgenstein, e un Wittgenstein letto e almeno un poco meditato) si interroghi sul dettaglio inarrivabile al documento, che pure deve aver concorso a determinare lo svolgimento della storia. Chi chiami in causa, suoi simili suoi fratelli se non altro in qualche senso, i personaggi secondari, Ciro Menotti o Carlo Pisacane (Nori del resto aveva scritto Pancetta su e per Chlebnikov – figura di emarginato che piacerebbe molto a Celestini – contro il santificato Majakovskij), così sconfitti come capaci di sfuggire alla galera mortifera della celebrazione. Per questo di Mazzini e di Garibaldi, che in teoria dovrebbero reggere questi libri, non si dà  praticamente traccia.

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