by Sergio Segio | 19 Gennaio 2013 8:50
Le motivazioni della guerra, nel duplice significato di cause e obiettivi, sono già state sviscerate: il jihadismo, le materie prime, lo spazio, il prestigio, l’impiego di armi vecchie da consumare e di armi nuove da provare. Nessuna guerra nasce da una sola causa e insegue un unico obiettivo. Senza nemmeno discutere il merito della questione i volenterosi di turno stanno correndo a costituire la solita coalizione. Chissà se come in altri casi, troppo noti per doverli citare, ci sarà anche questa volta un’eterogenesi dei fini.
E alla poco gloriosa vittoria delle armate occidentali farà da riscontro la vittoria di qualche «terzo incomodo» o a effetti non voluti come nel caso della Libia.
Per il momento i contendenti, usando due termini volutamente propagandistici, sono il «mondo libero» e il «califfato islamico». Di califfato sovranazionale, esagerando, parla Giulio Sapelli in un bell’articolo sul Corriere della Sera del 18 gennaio, su cui si tornerà per contestarne, più che l’analisi, le conclusioni. La crisi scoppiata in Mali riprendeva, adattandoli, temi nati molto prima della war on terror, connessi piuttosto alla secolare tensione fra nomadi e sedentari e più esattamente al processo di costituzione dello stato in un’area tormentata del continente fra Africa araba e Africa nera. Il fondamentalismo islamico nel Sahel è un fenomeno che dura da tempo e solo di recente ha acquisito gli aspetti anti-occidentali e militarizzati che adesso tutti giudicano intrinseci e preponderanti. Di per sé era una forma di identità culturale e di organizzazione sociale. Il grado maggiore o minore di ortodossia o eresia è importante ma secondario ai fini dei problemi attuali, ormai dominati dallo scontro duale così come definito più sopra.
Una rivolta di alcune migliaia di combattenti bene o male armati in cui si mischiano autonomismo localistico, fanatismo religioso, narcotraffico e criminalità comune, per di più in un territorio periferico, senza sbocchi al mare e senza il controllo di metropoli con un senso per l’economia-mondo che fa capo al Centro, dovrebbe avere un peso molto relativo. Vero è che anche in epoca coloniale – quelli che non credono nella storia si ostinano a non vedere le asimmetrie che l’esondazione dell’Europa fuori dell’Europa con i suoi valori, la sua tecnica e il suo potere ha provocato una volta per tutte – i piccoli incidenti hanno provocato i grandi eventi. Del resto, il Mali si collega con la Somalia, la Somalia con l’Afghanistan, l’Afghanistan con Al-Qaida. È più raro sentire nell’elenco l’appoggio fornito a vario titolo dall’America prima ai mujaheddin per abbattere il regime pro-sovietico di Kabul e poi ai talebani attraverso il Pakistan, dall’Europa ai militanti islamici della Bosnia e del Kosovo per fiaccare la Serbia o da Israele a Hamas per distruggere l’Olp. Le ragioni della rimozione sono ovvie mentre tornerebbe utile partire dal presupposto che l’islam non è o non è sempre stato il male da esorcizzare con tutti i mezzi ma uno strumento funzionale a certe cause.
Più la singola fattispecie, oggi il Mali o meglio l’Azawad, si configura, per la realtà dei fatti o ad arte, come una sfida che riguarda tutto e tutti, più la reazione andrebbe studiata e modulata con riferimento al quadro generale invece che al micro-contesto. Non per niente alcuni parlano addirittura di pericolo per la «civiltà ». Non deve sorprenderci. Già negli anni Ottanta, in piena guerra fredda, quando di fronte all’Occidente c’erano la rivoluzione e il comunismo e non i barbuti che tagliano le mani ai ladri, Chomsky scriveva che «per il sistema ideologico occidentale è essenziale che si crei un abisso fra l’Occidente civilizzato e la brutalità barbara di quelli che per qualsiasi ragione non riescono ad apprezzare la profondità di questo impegno storico». Impegno che, aggiungeva amaramente Chomsky, si dimostra per esempio nelle guerre americane in Asia. In effetti, se l’Occidente riduce la sua politica alla guerra, crisi dopo crisi, il divario più prezioso fra i «noi» e i «loro» di una certa visione, fra l’Occidente e chi aggredisce l’Occidente, evapora. Guerra contro guerra: una tragica equivalenza. Ognuno ha le sue Torri Gemelle da rinfacciare all’altro.
Riprendendo Sapelli, l’illustre storico ha ragione di vedere l’insorgere di un movimento generale che interpella l’Occidente. La verità però è che il jihadismo è la classica punta di un iceberg che non si esaurisce nelle guerre, che pure esistono. L’Europa dovrebbe riconoscere che il suo modello che – di nuovo, dal colonialismo in poi – era la sua vera forza nei rapporti con Africa e Asia non ha più presa. In particolare nella vasta area che sempre più riassume in un unico complesso il Medio Oriente e l’Africa settentrionale fino alla Nigeria e alla Somalia il revivalismo islamico è un’alternativa di medio-lungo periodo che premia se mai la Turchia, i Fratelli musulmani o l’Arabia Saudita (meno l’Iran). Questa sì è una presa d’atto su cui conviene meditare per aggiustare le politiche e le alleanze. L’esito delle Primavere arabe sarebbe stato meno imprevedibile. L’unico rimedio non può essere la soluzione militare a pena di un’altra guerra dei cent’anni. Con riferimento al nostro paese, che si appresta a intervenire più o meno alla chetichella forse con la copertura di chi non si vorrebbe, Sapelli commette una duplice scorrettezza. Primo, non esclude la guerra come opzione strategica, senza dire che sarà impossibile farla rientrare nell’autodifesa, sola eccezione al ripudio della guerra di cui alla Costituzione italiana. Secondo, suggerisce cautamente di posporre il dibattito a dopo le elezioni. Come dire che gli elettori italiani hanno la possibilità di pronunciarsi sulla patrimoniale o sulla Tav ma non sulla guerra. Tutt’al contrario, non è mai troppo tardi affinché, a cominciare dalla sinistra, non solo l’operazione del Mali in sé ma l’intero capitolo di come assecondare l ‘inclusione dell’AfricAsia nel sistema globale senza conflitto divenga un tema di confronto e di scelta.
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