Un Cavaliere al passato per nutrire la speranza di rimonta elettorale

by Sergio Segio | 15 Gennaio 2013 7:58

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Dunque comunisti, giudici faziosi, «centrini inutili». E ancora riforme della Costituzione, abbassamento delle tasse; e naturalmente alleanza con la Lega. È uno schema che gli fa sperare di rimontare la china di sondaggi tuttora impietosi, e di dare il meglio di sé sul piano delle apparizioni televisive. Ma non è soltanto per questo che l’ex presidente del Consiglio ritorna fra gli applausi dei fedelissimi, alcuni dei quali fino a qualche settimana fa speravano magari in una candidatura nelle liste di Mario Monti. La verità  è che Berlusconi non ha altra identità .
Come capo del governo non ha fornito grandi prove, anzi: l’epilogo del suo centrodestra nel novembre del 2011 è stato drammatico e insieme umiliante. La conferma è data dal «no» leghista a vederlo come proprio candidato a palazzo Chigi anche questa volta. Ma come macinatore di voti, il Cavaliere rimane un professionista. E la sua strategia rimane quella dell’autoesaltazione e della guerra psicologica contro gli avversari: formalmente i partiti del centrosinistra, in realtà  soprattutto le liste che fanno riferimento a Monti. Non sorprende dunque che Berlusconi neghi di avere come obiettivo il 20 per cento e si attribuisca il traguardo del 40, sostenendo che i centristi «valgono il 10 per cento».
Combatte non per la vittoria, ma per la sopravvivenza politica. E sa che per rimanere un interlocutore indispensabile e partecipare alla ridefinizione degli equilibri del potere nella prossima legislatura, deve ottenere un risultato: avere abbastanza voti da impedire che al Senato, il più in bilico, l’interlocutore di Pier Luigi Bersani e della sua maggioranza sia Monti e non lui. Per questo arriva a suggerire all’elettorato di votare magari a sinistra, ma non per il premier e per «Fini e Casini», additati come il simbolo di una politica infida. Se dopo il 25 febbraio si profilasse una coalizione che può fare a meno del Pdl, il ruolo berlusconiano diventerebbe residuale. Con conseguenze già  intuibili: la diaspora del suo partito, arginata abilmente, subirebbe un’accelerazione inevitabile; e la fine del «berlusconismo» diventerebbe ufficiale.
Invitare Bersani al confronto televisivo e dargli del pavido perché lo rifiuta, in quanto Berlusconi non è candidato a palazzo Chigi; evocare la preoccupazione «di certe autorità » che a suo dire vedono la sua incolumità  in pericolo; e accusare i giudici del processo Ruby a Milano di condizionare la campagna elettorale, sono tutti frammenti della stessa narrativa: un leader solitario contro tutti. Nell’operazione, Monti non è più il premier che ha salvato l’Italia sul piano internazionale dopo i guasti del governo Berlusconi. Il Cavaliere tende a rimpicciolirlo, a schiacciarlo nel ruolo di «complice»: della Germania, di Bersani e degli odiati Fini e Casini. Non è che Monti e la sua lista non esistano: non «devono» esistere, per consentire al bipolarismo vecchia maniera di imporsi di nuovo all’elettorato; e di garantire la sopravvivenza delle alleanze del passato: pazienza se a rapporti di forza invertiti.
Tutto il resto, a cominciare dallo spread dimezzato e oltre rispetto ad un governo del centrodestra che rischiava di portare l’Italia ad una situazione «greca», è ridotto a «imbroglio». E le misure tormentate che hanno permesso di riequilibrare i conti pubblici, sono presentate da Berlusconi come una caricatura da incubo; e dalla sinistra come un male necessario ma da curare. Per Monti, «Berlusconi ha già  illuso gli italiani tre volte. Mi ricorda il pifferaio magico con i topini che vanno ad annegare nel fiume». Quanto ai risultati, rischiano di essere vanificati in pochi mesi se al governo vanno «un nuovo illusionista» o «un vecchio illusionista ringalluzzito». Eppure, nel 1994 il Cavaliere illuse anche lui che, ammette, lo votò; né è chiaro quale «verità » prevarrà  nelle urne. Le metamorfosi sono sempre dolorose. E la loro riuscita deve fare i conti con la paura istintiva per le novità .

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