Un altro anno da dimenticare

Loading

GERUSALEMME. Mentre la famiglia Shamasneh di Sheikh Jarrah (Gerusalemme Est), dieci persone tra cui sei bambini, passava la notte di Capodanno fuori dalla propria abitazione (ci viveva dal 1963) dopo essere stata costretta ad abbandonarla su ordine della polizia per far posto a coloni israeliani (una sorte già  subita in quel quartiere dagli Hanoun, Al-Ghawi e al Kurd), a un paio di chilometri di distanza, a Beit Hanina, due famiglie palestinesi allargate (hamael) non trovano niente di meglio da dare per segnare l’anno nuovo che spararsi e accoltellarsi tra di loro per futili motivi: una faida costata la vita a un giovane di 22 anni e la distruzione di ben sei abitazioni date alle fiamme.
Colonna sonora di questa follia sono state le dichiarazioni dei leader palestinesi di Gaza e Cisgiordania. I primi, i dirigenti di Hamas, che per «meriti conquistati sul campo di battaglia con Israele» si propongono di «amministrare» quel misero 14% della Cisgiordania che, 19 anni dopo la firma degli accordi di Oslo, controlla l’Autorità  nazionale palestinese di Abu Mazen. Quest’ultimo, da parte sua, vede nel 2013 l’anno della «libertà  per il popolo palestinese, la liberazione dei suoi figli detenuti in Israele e il ritorno dei profughi nella loro Patria». Enfasi per il 48esimo anniversario della fondazione di Fatah, per decenni il principale movimento palestinese ma che da qualche anno rincorre Hamas. Fatah ora si prepara alle grandiose celebrazioni – venerdì nel centro di Gaza city – per l’anniversario della sua fondazione autorizzate per la prima volta dal 2007 dal governo del movimento islamico.
Tripudio di bandiere verdi
Good Morning Palestine, sveglia leader palestinesi. Il tripudio di bandiere verdi qualche settimana fa per l’anniversario di Hamas e gialle di Fatah in questi giorni, non riflette la realtà  sul terreno. Il 2013 comincia sotto i peggiori auspici per le aspirazioni palestinesi. In Israele, dopo le elezioni del 22 gennaio, vedrà  con ogni probabilità  la luce il governo più schierato a destra della storia del paese. Esecutivo che, in continuità  con quello in carica, proseguirà  la massiccia campagna di colonizzazione della Cisgiordania e, in particolare, di Gerusalemme Est scattata dopo l’accoglimento della Palestina all’Onu come Stato osservatore. Con oltre 9.000 case per coloni già  in fase di progettazione o costruzione, il premier Netanyahu ha chiarito molto bene a quale Stato di Palestina si riferisce quando riafferma, come ha fatto l’altro giorno all’università  Bar Ilan, il suo sostegno alla «soluzione di pace» dei due Stati.
Il mese scorso, nel giro di appena sette giorni, le autorità  israeliane hanno velocizzato tutto il percorso di approvazione di vari progetti, ponendo le basi per la costruzione in tempi stretti di 5.000 appartamenti a Gerusalemme est e della prima nuova colonia (Givat Hamatos) negli ultimi 15 anni. «Cinquemila appartamenti che si aggiungono ai 4mila già  in costruzione, si tratta di un processo che non ha precedenti per ampiezza e velocità  e che è palesemente volto a silurare qualsiasi accordo di pace con i palestinesi», spiega Daniel Seidemann, esperto di costruzioni a Gerusalemme.
Se Dio vuole continuiamo
Novemila case che aumenteranno del 20% le già  esistenti 50mila abitazioni per coloni a Gerusalemme Est, il settore palestinese della Città  Santa occupato militarmente da Israele 45 anni fa. «Se Dio vuole continueremo a vivere e a costruire a Gerusalemme che rimarrà  unita sotto la sovranità  israeliana», ha detto qualche giorno fa ad un comizio elettorale Netanyahu ribadendo che Israele non restituirà  il settore Est della Città  Santa che i palestinesi vorrebbero proclamare capitale del loro Stato. Sono con lui, secondo i sondaggi, gran parte degli israeliani che non considerano Gerusalemme Est occupata e chiamano le colonie ebraiche costruite dopo il 1967 nel settore arabo della città  «quartieri, rioni» (ad onore del vero anche gran parte dei media italiani lo fanno, incuranti delle risoluzioni internazionali).
Il premier israeliano ieri ha ribadito che «non farà  concessioni». Partecipando ad una sessione di studi biblici ha spiegato il suo punto di vista. «In Egitto è cambiato il regime – ha detto -, in Siria il regime è stato scosso e questo potrebbe accadere anche all’Autorità  nazionale palestinese (Anp) in Giudea e Samaria (la Cisgiordania occupata, ndr)»… «Tutti sanno che Hamas prenderà  il controllo dell’Anp. Potrebbe accadere dopo o anche prima di un accordo… perciò mi oppongo a chi mi chiede di accelerare, di fare concessioni… altrimenti sorgerà  una terza base per il terrorismo iraniano», ha aggiunto Netanyahu riferendosi ad Hamas e Hezbollah.
Non si capisce a quale Stato palestinese faccia riferimento il primo ministro israeliano quando riafferma il suo sostegno alla soluzione dei due Stati.


Related Articles

Dopo Trump. Scenari di guerra prossima e ventura contro l’Iran

Loading

Medio Oriente. Il viaggio del presidente Usa tra Arabia saudita e Israele ha gettato le basi per un rafforzamento di alleanze in chiave anti-Iran

DIPLOMAZIA L’arte di negoziare per evitare le guerre

Loading

La diplomazia è la continuazione della guerra con altri mezzi. Definizione poco diplomatica, ma che rende il senso di questa nobile arte. Il confine che divide il negoziato internazionale dal rombo del cannone è infatti molto labile.

Ilaria Alpi, via il segreto gli atti tornano in Procura “Possibile un’altra verità”

Loading

Si potrà quindi tornare ad indagare sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Il governo toglierà il segreto sui documenti che ruotano attorno al traffico di rifiuti e di armi dall’Italia alla Somalia

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment