Tutti i misteri dell’Antonveneta story, la banca di Padova che affossò Siena

by Sergio Segio | 26 Gennaio 2013 8:43

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Quando, nel giugno del 1996, i banchieri Silvano Pontello e Antonio Ceola hanno unito in matrimonio le due piccole banche di Padova, l’Antoniana (cattolica) e la Popolare Veneta (laica), dando vita ad Antonveneta, mai avrebbero potuto immaginare che il loro gioiello sarebbe diventato la preda che, di cacciatore in cacciatore, avrebbe fatto stramazzare al suolo la banca più antica del mondo, il Montepaschi. Perché da quella acquisizione costata oltre 9 miliardi, annoverabile fra gli ultimi grandi «botti» prima della stagione delle diete forzate che ha messo a regime ipocalorico tutto il sistema del credito italiano e mondiale, l’istituto di Siena non si è più veramente ripreso. Fino al secondo e ultimo ricorso al salvagente pubblico: dopo i Tremonti-bond, i Monti-bond.
Il sogno allora un po’ visionario di unire due istituti locali, che insieme hanno poi comprato la Banca nazionale dell’agricoltura e hanno fatto la «rivoluzione» trasformando la cooperativa in spa, rappresenta per certi versi la classica eredità  che le vicende successive hanno spogliato delle proprie radici. Perché quando si è sciolto il patto che ha governato l’Antonveneta, si è scatenata la battaglia per il controllo dell’istituto. In campo da un lato l’olandese Abn Amro, azionista a Padova già  nel ’96, dall’altro i «furbetti del quartierino», Gianpiero Fiorani, il banchiere prediletto dall’allora Governatore Antonio Fazio, i bresciani capitanati da Emilio Gnutti, l’Unipol di Giovanni Consorte, Stefano Ricucci, autore e proprietario morale del copyright dei «furbetti» che ha dominato la stagione delle scalate 2004-2005 a Antonveneta, Bnl e Rcs. Dopo Opa e contro Opa, assemblee rocambolesche che hanno visto i «furbetti» schierati come un sol uomo, e quindi facilmente riconoscibili in patto occulto, ricorsi in tribunale, ha vinto Rijkman Groenink: il numero uno del gruppo olandese, dopo che Fazio è «costretto» a revocare l’autorizzazione dell’Opa di Fiorani («sono venuti meno i presupposti»), con un’operazione da 7,3 miliardi, a fine 2005 conquista Antonveneta. «È un momento storico sia per noi, sia per l’istituto di cui ora abbiamo il controllo», dice Groenink ringraziando Consob e sistema giudiziario «che hanno dimostrato di saper fare il proprio dovere».
Nemmeno lui avrebbe potuto immaginare in quel momento che cosa sarebbe accaduto non molto tempo dopo alla sua Abn e quindi ad Antonveneta. Quando tramonta l’estate del 2007 le sorti dell’istituto padovano vengono cambiate dall’esito di una grande battaglia finanziaria europea: Abn Amro in crisi diventa a sua volta preda ed è oggetto di un braccio di ferro fra Barclays e il trio multinazionale guidato dallo spagnolo Santander di Emilio Botin e che vede partecipanti la scozzese Royal bank of Scotland e il gruppo finanziario belga-olandese Fortis. Sarà  la cordata a vincere la partita della maggiore acquisizione europea sborsando 71 miliardi. Nel «pacchetto», che poi sarà  ripartito con uno spezzatino c’è anche Antonveneta. Che va in dote al Santander per circa 7 miliardi. Come Groenink, anche Botin fa subito sapere di avere dei piani per l’istituto padovano, perché l’Italia è «prioritaria».
Piani che però si rivelano presto di ben altro tipo rispetto alle prime attese. Dopo l’Antonveneta all’olandese, scolora in poco tempo anche quella alla spagnola: torna in Italia, e più precisamente a Siena. Con un blitz, l’8 novembre 2007, il Montepaschi guidato da Giuseppe Mussari e controllato dalla Fondazione presieduta da Gabriello Mancini, «conquista» il gruppo padovano per oltre 9 miliardi, battendo sul filo di lana l’offerta presentata da Bnp Paribas. Anche per Mussari, il cui Mps era rimasto fuori dal risiko bancario che aveva visto unirsi in matrimonio prima Intesa e Sanpaolo, poi Unicredit e Capitalia, è il momento dell’alloro e dei ringraziamenti. Così assicura che il prezzo pagato «non è alto, la banca padovana può produrre 700 milioni di utile netto». Quindi ringrazia il Santander, «controparte dura ma affidabile». Botin forse in quella occasione stona un po’, perché rivela che l’offerta da 9 miliardi, al netto di Interbanca che resta in mani spagnole, è «significativamente superiore» ai 6,6 miliardi di valutazione della banca nell’ambito della offerta complessiva su Abn Amro.
È il botto finale di una stagione record di merger & acquisition che non si ripeterà  mai più. Soprattutto sotto il profilo dei prezzi. La crisi dei subprime, che già  si fa sentire nell’estate 2007, e il fallimento della Lehman Brothers nel settembre 2008, metteranno per sempre fine a supervalori e ad aspettative di maxi-utili. Una svolta che ha colpito anche duramente due protagonisti del terzetto scalatore (Rbs e Fortis) mentre al terzo, il Santander appunto, è riuscito il «colpo» che gli ha portato un beneficio di circa 2 miliardi in poche settimane.
Ma per Montepaschi, che ha pagato un premio del 32% circa sul valore della banca (valore che, secondo Tommaso di Tanno, alla guida del collegio sindacale di Mps dal 2006 all’approvazione del bilancio 2011, era pari a 2,3 miliardi) la via padovana si è rivelata una scalata dura al punto tale da togliergli il fiato. Prima l’aumento di capitale da circa 4,5 miliardi, sottoscritto per metà  dalla Fondazione e che ha previsto il prestito subordinato denominato fresh, assimilato a equity, poi i Tremonti bond per 1,9 miliardi, quindi un’altra ricapitalizzazione da 2 che l’ente segue indebitandosi, infine il lancio della spugna con la perdita della maggioranza assoluta, l’arrivo dei «ristrutturatori» Alessandro Profumo e Fabrizio Viola e anche della Procura che indaga sull’operazione Antonveneta e sull’esborso, il ciclone dei derivati. Padova trasformerà  un altro predatore in preda? Il mercato non lo esclude. Per l’Antonveneta story si tratterebbe di un nuovo, e questa volta forse ultimo, capitolo.
Sergio Bocconi

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