Trieste territorio dell’anima Autobiografia di una scrittrice
Ho conosciuto Susanna Tamaro molti anni fa, quando non aveva ancora pubblicato nulla e un’amica di mia madre, maestra elementare anche lei, mi aveva parlato di questa ragazza che scriveva delle cose a suo dire molto belle. Ho letto due manoscritti, Illmitz e Falco. Due testi duri, incisivi e taglienti, che dicono la violenza della vita. Ho cercato invano, inviandoli a molti editori, di farli pubblicare; soprattutto Illmitz è un testo notevolissimo, e non capisco perché lei non l’abbia poi pubblicato, dopo il successo degli altri. In quei tempi, se non sbaglio, lei lavorava a Trieste per la televisione e mi regalò un suo servizio sulle orme degli animali, con una dedica che diceva che quelle sì erano cose serie. Infatti in quelle orme di animali, in quella nitida assolutezza di qualcosa di effimero c’era una forza stilistica non inferiore a quella della parola.
La incontravo ogni tanto al Caffè San Marco di Trieste, a un tavolo dove c’era Giorgio Voghera, la cugina di quest’ultimo Alma Fano, anche lei scrittrice, e Piero Kern, una straordinaria figura di estroso, generoso e geniale commerciante triestino, coltissimo, fulmineo e del tutto libero nei suoi giudizi, spesso ironici e caustici, che non hanno risparmiato — pur affettuosamente — nemmeno Susanna Tamaro e me. Poco dopo Susanna Tamaro avrebbe pubblicato un forte libro di racconti, Per voce sola, da Marsilio, e Va’ dove ti porta il cuore, che ebbe uno straordinario successo, anche se a mio avviso poeticamente non regge il confronto con Illmitz.
Ora esce questa sua autobiografia. È un libro geometrico e insieme arioso come il vento col quale inizia il racconto della sua vita; scritto col coltello, con quella lama che, dice espressamente l’autrice, accomuna la scrittura alla macellazione rituale che taglia e recide di netto. È la storia di una mancanza, a iniziare dal rapporto con i genitori, inferi famigliari ritratti senza sconti ma senza risentimento, con pietas e amore, come risalta soprattutto nelle pagine finali in cui si ricompone il rapporto con l’impossibile padre. Storie di buio nascosto nell’animo che pure non impedisce la luminosità dell’esistere; di un Io votato a essere spento, in un gorgo di assenza, ma che riesce a vincere il male con candore e a difendersi con la più efficace delle strategie, la docilità , che cela il totale distacco e permette la libertà interiore.
Che cosa spinge uno scrittore a raccontare direttamente la propria autobiografia, magari dopo averla già narrata, ma con tutta la libertà dell’invenzione, in un romanzo, come forse ha già fatto Susanna Tamaro? È ovvio che grandi personaggi storici che hanno inciso sulla storia del mondo ci interessano anche per la loro biografia, là dove essa ha a che fare con la storia del mondo e dunque con il nostro destino. Ci sono inoltre le autobiografie di chi ha sofferto di disturbi psichici e scrive per riappropriarsi della propria soggettività prima negata, offesa e violentata dalla malattia e spesso dal mondo circostante, cui Peppe Dell’Acqua sta per dedicare una collana.
Ma perché dovrebbe interessarci particolarmente che cosa è accaduto fra uno scrittore e i suoi genitori, soprattutto se quell’esperienza, artisticamente trasformata, ha già dato il suo frutto in un’intensa opera letteraria — dico a Susanna, incontrandola al San Marco — come hai fatto tu con i tuoi romanzi e racconti? Tu parli del «desiderio di decifrare il mondo intorno». Ma allora perché parlare dell’Io, delle proprie angosce e malinconie? Non si corre il rischio di cadere, come tu scrivi, «nelle pastoie del sentimentalismo» e di «accontentarsi delle piccole gratificazioni dell’ego?».
Tamaro — Non avrei mai pensato di scrivere un’autobiografia e non considero questo libro una cronaca indiscreta della mia vita. È nato da un incontro con Elisabetta Sgarbi che, dopo un’intervista per il suo film sul rapporto tra la letteratura e Trieste, forse colpita dalle mie risposte, mi ha detto: «Hai tante cose da dire. Perché non scrivi una riflessione su questo?». Il libro, infatti, è nato come un saggio sull’influenza che un territorio e un’epoca possono avere sulla creatività letteraria. Ma non essendo io una saggista, mi è venuto naturale iniziare a indagare dal mio stesso percorso, andando alla ricerca delle radici del mio mondo narrativo, di questa forza misteriosa che da anni mi possiede. Tutto questo mio scavo nella memoria non è una vera e propria autobiografia, dunque, ma è un viaggio interiore alla ricerca della nascita della poesia. Credo del resto che anche tu, nella tua opera, abbia attinto alle tue esperienze autobiografiche.
Magris — Per quel che mi riguarda, quasi tutto è autobiografico, ma indirettamente. Quasi tutti i libri che ho scritto contengono tante cose del mio vissuto, persone, eventi, fatti, paesaggi, sentimenti, felicità . Ma ciò viene metabolizzato, senza alcun obbligo di fedeltà fattuale; diviene qualcosa d’altro. Danubio e Microcosmi, ad esempio, sono anche un’autobiografia, ma riflessa nelle cose, nelle storie magari successe ad altri. Io ho detto una volta che il mio libro più autobiografico è La mostra, perché è quello che forse va più a fondo nel mio vissuto, ma autobiografico in senso metaforico perché, a differenza dal protagonista di quel testo, io non sono né pittore né pazzo né, almeno finora, morto in manicomio. A differenza di me, tu hai scritto sia romanzi, testi inventati anche se ovviamente fondati sulla tua esperienza, sia questa autobiografia. Che differenza c’è fra lo scrivere gli uni e l’altra, quale è il loro rapporto?
Tamaro — Con Ogni angelo è tremendo ho fatto un viaggio a ritroso nel tempo — un po’ come ha fatto Proust ne Le temps retrouvé — riscoprendo i frammenti del mio vissuto che hanno poi fatto scaturire i miei racconti e i miei romanzi. Uno scrittore, per essere tale, deve avere un mondo dietro, un mondo unico e riconoscibile, e questo mondo pervade inevitabilmente, in modo diverso, ogni pagina che scrive.
Magris — Un testo può essere autobiografico direttamente o indirettamente. Una storia d’amore felice che abbiamo vissuto ci può spingere a inventare il racconto di un amore felice, ma ci può anche far capire l’orrore e il vuoto di una vita senza amore e quindi indurci a scrivere, a inventare il racconto di un amore infelice, nato da un’esperienza al contrario. Un’autobiografia non può mai essere completa e nemmeno certa di essere vera in ogni dettaglio, perché anche della propria vita si vengono a conoscere alcuni momenti ed episodi (ad esempio quelli della primissima infanzia, il vento dell’ora in cui sei nata) dopo molti anni e questi si integrano in quella persona un po’ diversa che nel frattempo siamo diventati e quindi il loro racconto non è un resoconto oggettivo. Inoltre c’è il freno del doveroso riguardo verso alcune persone — in particolare, come nel tuo libro, di persone care e vicinissime come i genitori. Perché, ad esempio, non c’è nulla della tua vita sentimentale? Con che criterio scegli che cosa raccontare e tacere, che cosa tagliare (o magari cercare di dimenticare?).
Tamaro — Più che scrivere la cronaca della mia vita, che non mi ha mai interessato, ho voluto raccontare soprattutto la fine di un mondo. Quello di una certa Trieste, del Caffè San Marco, di Giorgio Voghera, di Alma Morpurgo, di Piero Kern — un circolo di persone che, per cultura ed età , concepiva la letteratura come un barometro essenziale per comprendere gli scricchiolii del mondo. Per me la letteratura è sempre stata un’indagine sull’abisso del cuore umano, sul mistero del caso, su tutto l’oscuro e il luminoso che avvolge i nostri giorni. E per entrare in quest’abisso, ho dovuto spogliarmi del mio piccolo ego personale. Non è stata dunque una pulsione narcisistica a spingermi a parlare di me, ma un semplice pretesto narrativo.
Magris — Mi è sembrata sempre volgare la brutalità egocentrica con cui poeti anche grandi hanno celebrato, pure con alta poesia, le loro passioni, senza badare al dolore che potevano così infliggere ad altre persone pur amate. Ernesto Sà¡bato scrive che non è lecito far soffrire nessuno, neanche un cane. Ma i poeti — dice uno di loro, il grande Milosz — hanno spesso un cuore freddo; se scrivono sul dolore di un bambino, sono più presi dai loro versi che da quel bambino di cui i versi parlano.
Tamaro — Ci sono due tipi di autobiografie. Quelle che hanno in sé il germe dei voyeurismo, che nascono appunto per raccontare pedissequamente incontri, eventi, fatti intimi spesso imbarazzanti, vuoi per vendetta, per narcisismo o per nostalgia, che io personalmente non amo. Mentre ci sono altre autobiografie che, per svilupparsi, seguono un filo interiore e utilizzano le persone e gli accadimenti unicamente come specchi per illuminare gli archetipi. Non c’è risentimento, non c’è indiscrezione, non c’è pesantezza terrestre in questi racconti, ma piuttosto un percorso di vita capace di illuminare la vita di molti. Questo è il tipo di autobiografia cui amo riferirmi.
Magris — E ne è uscito non un registro di fatti e persone, ma un’autobiografia dell’anima. A parte questo, c’è un criterio di verità nell’autobiografia? È possibile che la coerenza del racconto costringa ad eliminare o a trasformare alcuni fatti, episodi, interpretazioni che sarebbero incoerenti col racconto, come fa Goethe nella sua autobiografia, intitolandola Dichtung und Wahrheit, dove Dichtung non vuol dire soltanto poesia ma anche invenzione, favola, finzione…
Tamaro — Certo, l’incubo di ogni scrittore è lo zelante biografo postumo, magari animato da ottime intenzioni, ma comunque quasi sempre incapace di raccogliere il grande respiro che c’è sempre dietro ogni vita potentemente creativa. Inevitabilmente, ogni cosa viene inscatolata, etichettata, secondo il buonsenso comune che niente ha a che vedere con la follia dolorosa della scrittura. In questo libro ho cercato soprattutto di rispondere alle domande che da sempre mi assillano. Perché mi sono trovata a scrivere dei libri, non avendo mai desiderato o sognato di fare lo scrittore? Come ben sai, la mia grande passione erano — e lo sono tutt’ora — le scienze naturali. Darwin e Konrad Lorenz sono stati i miti della mia giovinezza. Credo che la mia letteratura risenta parecchio di questo mio sguardo da entomologo.
E ancora, come è possibile che da una stessa famiglia siano nati due scrittori di fama mondiale, dato che sono pronipote di Italo Svevo e che sono cresciuta vicino a sua figlia Letizia, di cui peraltro porto il secondo nome? Che legame misterioso c’è fra queste cose? Ecco, per me Ogni angelo è tremendo è stato un po’ come scrivere un thriller — seguire gli indizi per cercare di capire dove si nasconde il colpevole.
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