by Sergio Segio | 8 Gennaio 2013 7:37
Ricucita l’alleanza elettorale, Pdl e Lega riusciranno a resuscitare anche il formidabile rapporto con la società del Nord che ha permesso loro di restare per più lustri l’incontrastato baricentro della politica italiana? La domanda e il dubbio sono più che legittimi perché molta acqua è passata sotto i ponti dalle elezioni politiche del 2008, quando il centrodestra unito fece il pieno dei consensi dei piccoli imprenditori, dei professionisti e del popolo delle partite Iva.
Roberto Maroni lo sa benissimo e per questo ha puntato tutte le sue carte sulla proposta di trattenere in Lombardia il 75% delle tasse pagate dai residenti. In termini assoluti il provvedimento varrebbe risorse aggiuntive per 20 miliardi l’anno con le quali quello che già si considera il successore di Roberto Formigoni abolirebbe l’Irap (costo: tra gli 8 e i 9 miliardi) e il bollo auto, ridurrebbe l’Imu e sosterrebbe i redditi più bassi. Una volta sfondato in Lombardia gli altri governatori del Nord, Roberto Cota (Piemonte) e Luca Zaia (Veneto), potrebbero adottare la misura nelle rispettive regioni e saremmo a un passo dalla secessione. Perché senza il gettito fiscale della macroregione del Nord il bilancio centrale sarebbe destinato ad affondare come il Titanic.
Prima di ragionare sulle conseguenze di finanza pubblica sarà bene però capire l’appeal elettorale della proposta Maroni. È chiaro che l’Irap è la tassa più odiata da parte di quegli artigiani e commercianti che hanno via via abbandonato il centrodestra rivolgendosi per lo più verso l’astensione e in parte (minoritaria) verso Grillo. La verità , infatti, è che il Pd pur ampiamente in testa nei sondaggi non sembra esser riuscito a pescare consensi nel campo del centrodestra. Alle consultazioni amministrative di mezzo mandato il centrosinistra ha fatto il pieno e da Torino a Trieste quasi tutti i primi cittadini delle città che danno sulla A4 sono del Pd o di Sel ma si è trattato quasi sempre di vittorie fortemente agevolate dalla mancata mobilitazione dell’elettorato tradizionalmente vicino al centrodestra. E quindi anche dei Piccoli. Il caso emblematico è quello delle elezioni (2012) di Legnano: al sindaco leghista succede il candidato del Pd ma senza che i voti del centrodestra abbiano cambiato destinazione.
Dicevamo che in questi anni di grande crisi molte cose sono cambiate. Il centrodestra agli occhi delle categorie produttive non è parso avere nel cassetto una politica economica efficace. Per quel che riguarda la stretta creditizia l’idea di rivolgersi ai prefetti si è rivelata ridicola, la cifra-monstre di 60 miliardi di mancati pagamenti della pubblica amministrazione alle imprese fornitrici è lievitata proprio negli anni del centrodestra al potere, la riforma fiscale prima era stata promessa e poi accantonata e, infine, Pdl e Lega non sono riusciti nemmeno a semplificare la burocrazia. Anche per l’effetto combinato di queste delusioni il Pdl nelle regioni del Nord ha perso ulteriore contatto con il territorio e non ha alcuna presa sui dossier qualificanti dello sviluppo locale, si tratti del rigassificatore di Trieste o del futuro della Fiera di Milano, del decollo dell’aeroporto di Brescia-Montichiari o della destinazione d’uso di Porto Marghera dopo il flop della chimica. I suoi gruppi dirigenti si dedicano per lo più a piccole schermaglie di potere e paiono aver rinunciato a coltivare progetti. L’unica presenza densa dentro il Pdl è data dai politici vicini a Cl che hanno ancora seguito e articolazione sul territorio. Bisognerà però vedere se la base condividerà la scelta pro Monti di Mario Mauro oppure seguirà Maurizio Lupi e Raffaello Vignali rimasti con il Cavaliere.
Al di là della potenziale efficacia della parola d’ordine «le tasse restino in Lombardia» anche in casa leghista l’età dell’oro nel rapporto con le comunità locali è passata. In Piemonte aver conquistato la Regione alla fine non ha portato grandi benefici e in Veneto la guerra sotterranea tra Flavio Tosi e Zaia va avanti ormai da tempo. Il veronese è sicuramente all’attacco e si fa forte del rapporto privilegiato con Maroni, il governatore sembra più defilato e quasi in surplace ma quando si tratta di nomine, come quelle recenti della sanità veneta, non si lascia scappare un posto. Nessuno dei due però è riuscito a individuare una proposta capace di far evolvere il modello Nord est nelle nuove condizioni e il Patto per il Veneto firmato da Zaia con le associazioni e i sindacati è restato lettera morta. Più a Ovest prima di lanciare l’ultima idea di Maroni la Lega non aveva trovato di meglio che istituire una seconda moneta, il lombard. Iniziativa caduta nel disinteresse generale e considerata perlomeno bizzarra dalla stragrande maggioranza degli operatori economici. Sull’Ilva poi, a dimostrazione di una visione industriale eccessivamente semplificata, il Carroccio si era incaponito a bollare il decreto del governo come «anti nordista» senza sapere che una buona fetta dell’industria meccanica delle regioni padane viene rifornita dai tubi e dai laminati di Taranto.
Ma quanto conteranno i dossier territoriali nell’orientare il voto di febbraio? I sondaggisti in proposito sono divisi. Alcuni sostengono che si tratterà di una campagna elettorale iper mediatizzata e quindi conteranno solo le parole d’ordine capaci di far breccia a colpi di grandi numeri. Ed è evidente che se fosse così Maroni avrebbe pescato il jolly e potrebbe esibire, anche davanti a un successo nazionale di Pier Luigi Bersani, la forza di un Nord che si colloca all’opposizione del governo centrale. In più disporrebbe di una parola d’ordine («la macroregione fiscale») capace di scardinare qualsiasi politica economica post voto. Ma le stesse resistenze che il successore di Umberto Bossi incontra nel convincere i suoi militanti dimostrano, certo, che la base non si fida più del Cavaliere ma anche come molti dentro il Carroccio preferirebbero una campagna elettorale più identitaria e legata strettamente ai temi dello sviluppo locale.
Dario Di Vico
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