“Tangenti alla segreteria di Alemanno”

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ROMA — Erano mesi che l’inchiesta sulle mazzette all’ormai ex presidente di Eur Spa, Riccardo Mancini, e fedelissimo di Alemanno, prometteva di arrivare dritta dritta in Campidoglio. E ci è arrivata: «Quella mazzetta era per la segreteria di Alemanno». Parole messe nero su bianco da Edoardo D’Incà  Levis, imprenditore nel settore dei trasporti che ha propiziato il contratto grazie al quale Breda Menarini si è aggiudicata un subappalto da circa 40 milioni di euro per fornire 45 filobus al Comune di Roma. Un affare che la controllata di Finmeccanica voleva avere a tutti i costi. Anche a costo di “oliare” i meccanismi di assegnazione. Secondo il pm Paolo Ielo, la mazzetta pagata da Breda si aggira sui 600mila euro e sarebbe stata divisa tra Ceraudo e Mancini, il primo in carcere da lunedì (e ieri interrogato per cinque ore) e il secondo indagato.
Ma ora spunta un nuovo dettaglio. È l’8 gennaio, il giudice per le indagini preliminari, Stefano Aprile, interroga D’Incà  Levis, arrestato con l’accusa di frode fiscale. L’imprenditore racconta la storia della tangente. «Nel 2008 Ceraudo mi manifestò la necessità  di “aiutare” la commessa nel senso che andavano reperite risorse per 1.200.000 euro da destinare a persone della De Santis Costruzioni Spa in grado di influire sull’assegnazione dell’appalto. Ceraudo mi disse che aveva bisogno di fatture da iscrivere al passivo in modo da far uscire le risorse finanziarie da destinare a questa operazione: io gli dissi che non ero disponibile
personalmente o con le mie imprese a effettuare questa operazione chiaramente illegale, ma lo aiutai a trovare l’impresa disponibile ». Il gip gli chiede conto della mail invitata a Ceraudo nell’aprile 2008 (e pubblicata oggi da Repubblica) in cui prevede 315mila euro per la “lobby Roma”. «Pur essendo io a conoscenza dell’operazione
illecita volta a costruire la provvista da impiegare per “aiutare la commessa”, la somma di cui si parla non costituiva, secondo quanto a mia conoscenza, un’ulteriore porzione di quell’“aiuto”». Quei soldi non bastavano. «Il 17 o 18 giugno 2009 nel corso di una conversazione via Skype con Ceraudo – si legge ancora nel verbale – questi mi disse che la politica voleva ancora soldi. Io stupito gli chiesti se era De Santis ed egli disse no, la politica senza aggiungere nomi». Il giudice Aprile lo incalza: «Possibile che Ceraudo non le abbia mai fatto nomi?». E D’Incà  Levis ammette: «Nel corso di quella conversazione Ceraudo fece riferimento alla “segreteria di Alemanno” come destinataria delle risorse finanziarie. Non precisò, né io chiesi, se la segreteria fosse destinataria di tutto o di parte delle risorse». Parole che ora il pm Ielo dovrà  verificare ma che Alemanno ha subito smentito: «Non ho idea di chi sia il signor D’Incà  Levis e né il sottoscritto né la mia segreteria si sono mai occupati di interferire nelle assegnazioni di appalti di qualsiasi genere, compreso ovviamente quello riguardante l’inchiesta in questione».
Eppure l’imprenditore ricorda bene. Raggiunto telefonicamente da Repubblica ha detto: «Quando Ceraudo mi disse che quei soldi erano per la politica quasi sono svenuto: ho capito che mi ero infilato in una tortura vietnamita». Scarcerato quasi subito (il 10 gennaio, ndr), D’Incà , difeso dall’avvocato Alessandro Diddi, è preoccupato: «Non avrei mai pensato di finire in una cosa così grossa. Credo che i magistrati abbiano creduto che io non sapevo che quel denaro era per la politica, altrimenti ora non potrei stare qui a parlare al telefono con lei».
E il Pd capitolino – da Umberto Marroni a Paolo Gentiloni – intanto chiede le dimissioni del sindaco.


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