by Sergio Segio | 16 Gennaio 2013 7:12
ROMA — La corsa al Quirinale è sempre stata decisa dai numeri. Stavolta però verrà influenzata in modo determinante anche dal timing. Non basterà infatti il voto del 24 febbraio per capire quale piega prenderanno le votazioni per il Colle, che avranno inizio il 15 di aprile. Rispetto al 2006 si sono invertite le scadenze: se allora il primo atto del Parlamento fu l’elezione del nuovo capo dello Stato, stavolta le Camere dovranno prima dare la fiducia a un nuovo governo. È un dettaglio che inciderà sulla strategia con cui i partiti usciti vincenti dalle urne affronteranno la questione. È un tema che è stato discusso dalle forze politiche e che è affiorato persino nelle consultazioni di fine legislatura al Quirinale.
Il punto è se l’intesa sul prossimo presidente della Repubblica starà dentro gli accordi di maggioranza, se sarà insomma una carica che servirà a blindare un patto di legislatura tra partiti o se «la scelta — come ha detto Franceschini a una riunione del Pd — andrà svincolata dalle intese per gli equilibri di governo». Questa al momento è la linea di Bersani, che — in caso di vittoria — ha annunciato di voler ricercare sul successore di Napolitano una mediazione «anche» con il Pdl. Il motivo è chiaro: con l’arrivo in Parlamento dei grillini e forse dei «rivoluzionari» di Ingroia, con un Senato a rischio ingovernabilità , con i problemi da risolvere per una probabile convivenza di Monti e Vendola, il candidato che già pensa da premier vorrebbe scongiurare un clima di scontro al calor bianco all’inizio del suo mandato.
«Avremo già un bel da fare. Se penso a quello che ci aspetta con gli esodati…» ha spiegato il leader dei Democratici, che alludendo ai rischi di tensioni sociali nel Paese vorrebbe evitare le barricate nelle Camere almeno con una parte delle opposizioni. L’esperienza insegna, e nel Pd non vogliono commettere l’errore del 2006, quando la maggioranza prodiana si chiuse a riccio sulle cariche istituzionali pensando di essere autosufficiente. In più il dialogo con «l’avversario» potrebbe essere funzionale a scremare la lunga lista dei pretendenti. E siccome Berlusconi ha già anticipato il suo «no» a Prodi, Monti e Casini in nome di un «presidente di tutti», i veti potrebbero semplificare il lavoro di Bersani.
In caso di vittoria del centrosinistra, quindi, l’intesa sul prossimo inquilino del Quirinale dovrebbe rimaner fuori dagli accordi di governo, che presumibilmente verranno stretti con il Professore. «Anche perché — sottolineano nel Pd — un simile patto andrebbe stretto a febbraio, e dovrebbe poi reggere fino ad aprile…». Difficile, se non impossibile. È evidente che il timing di inizio legislatura inciderà sulla «rosa» dei candidati al soglio quirinalizio. Così com’è evidente che i centristi vorranno mettersi di traverso rispetto all’eventuale apertura di credito di Bersani a Berlusconi. «Un accordo anche con il Pdl? Bisognerà capire se ancora ci sarà il Pdl nella prossima legislatura», attacca Buttiglione: «Anzi, potrebbe essere proprio la scelta del nuovo capo dello Stato a farlo definitivamente esplodere».
La corsa non è ancora cominciata e già tutti sono partiti. Ma non ha senso la polemica sull’endorsement del Cavaliere per Draghi, peraltro un atto dovuto, visto che quel nome gli era stato avanzato in una domanda. Così come non ha alcun senso inseguire il profilo del «mister x» che Berlusconi avrebbe in testa, se vincesse le elezioni: è Gianni Letta. Ma la partita è un’altra: a meno di clamorose sorprese, spetterà al Pd avanzare delle proposte. E da quando Monti è «sceso dal piedistallo» per competere nelle urne, a schizzare in alto sono state le quotazioni di Amato, figura assai gradita agli attuali vertici istituzionali dopo la decisione del Professore di «salire in politica», e in ottimi rapporti con il Cavaliere, che nel 2001 lo avrebbe voluto con sé al governo.
Nella corsa al Quirinale nulla può darsi per scontato, ed è certo che — ai nastri di partenza — ci sarà chi rilancerà l’idea di «una donna al Colle», che Maroni avanzò la scorsa estate alla Festa del Pd, davanti alla Finocchiaro, mentre già nel Palazzo circolava il nome dell’attuale ministro dell’Interno Cancellieri. Ma non c’è dubbio che Amato sia uno dei più accreditati, risponde peraltro a una regola aurea che — come ricorda Follini — è sempre stata utilizzata nella scelta del capo dello Stato: «Occorre trovare un candidato forte della sua debolezza politica». Se così fosse, anche stavolta D’Alema sarebbe fuori dai giochi, sebbene nel Pdl ci sia chi — sussurrando — invita a non precorrere troppo i tempi.
Si vedrà . Probabilmente le elezioni daranno ragione a D’Alema, che ieri ha rammentato come «ogni qualvolta c’è stato da eleggere il presidente della Repubblica, la maggioranza l’avevamo noi»: «Questo è ciò che la provvidenza ha voluto fare». Più che la «mano» della provvidenza fu in realtà una «manina» di centrosinistra a impedire che la corsa al Colle si svolgesse mentre il centrodestra era maggioranza. Accadde nel 2001, quando il presidente del Consiglio dell’epoca si recò al Quirinale per informare il capo dello Stato sulla data delle imminenti elezioni politiche: «Abbiamo scelto il 13 maggio — fu spiegato a Ciampi — perché così non sarà il prossimo Parlamento a eleggere il tuo successore». Di lì a poco Berlusconi avrebbe vinto le elezioni. Il premier dell’epoca era Amato.
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