Starbucks in India la guerra del caffè nella patria del tè

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LONDRA. La battaglia del caffè nella patria del tè. L’India dei milioni di venditori ambu-lanti, che per l’equivalente in rupie di un coppino di rame da cinque centesimi ti offrono un bicchiere di tè masala sul bordo di ogni strada, osserva serafica il braccio di ferro tra colossi dell’industria, la sfida combattuta nei grattacieli di Bangalore e di Seattle. Starbucks, il gigante americano del caffè che possiede 20.400 botteghe nel mondo, ha deciso che dopo la Cina è ora di conquistare anche l’India con la sua catena e con il suo marchio, e per farlo si è alleato nientemeno che con Tata, il gruppo industriale che controlla il settore automobilistico indiano ma anche quello chimico e energetico, quello della comunicazione, quasi tutti quelli che vengono in mente. L’obiettivo è piantare tutte le bandierine possibili prima che riesca a farlo anche Dunkin Brands, il suo più feroce competitor che già  nel 2011 aveva deciso di scommettere sulla passione crescente degli indiani per il caffè alleandosi con una compagnia locale.
Di fronte a loro, però, c’è Siddhartha. Nessuna metafora, no: si chiama così, proprio come l’ascetico protagonista del libro di Hermann Hesse, il 53enne magnate del caffè indiano che ha cominciato a produrre i chicchi tostati di arabica e di robusta nel 1994. In meno di vent’anni è diventato uno dei più grandi operatori del settore, ha realizzato una catena di locali “Coffee Day” che è già  arrivata a quota 1.400 in tutta l’India più un migliaio di chioschi, e che ogni mese continua a espandersi e a inaugurare. Non ha nessuna voglia di fermarsi a guardare come tenteranno di spartirsi il suo Paese: la sua compagnia, con sede nella tecno-megalopoli di Bangalore, non è un banale franchising di caffetterie ma una filiera diretta che va dalle piantagioni — le dichiara «sostenibili » — per migliaia di ettari agli impianti di stoccaggio, alla torrefazione e alla produzione delle macchine da bar, e infine ai locali di vendita.
Scintille tra due culture, ma scintille anche tra due fronti di capitalismo che si intendono già  benissimo. «A lot can happen over a cup of coffee», molto può accadere davanti a una tazza di caffè, recita lo slogan di Coffee Day. Per ora, molte più cose accadono davanti a una tazza di tè, in India: se ne beve almeno sette volte tanto, ma è anche vero che davanti alle due tazze accadono indubbiamente cose molto diverse. Starbucks ha aperto il suo primo locale in un edificio storico di proprietà  della Tata a Mumbai, e ha continuato aprendo in due grandi alberghi da mille e una notte della stessa città : il Taj Mahal Hotel & Palace, sempre del gruppo Tata, e l’Oberoi Mall nei sobborghi. In un anno Howard Schultz, ad di Starbucks, punta ad aprirne almeno altri cinquanta, e lo scorso ottobre è andato personalmente in India per la prima inaugurazione. Ma i prezzi di un caffè Starbucks sono attorno alle 115 rupie, circa 1,60 euro: un caffettino costa mezzo stipendio giornaliero di un bracciante. Coffee Day punta su prezzi leggermente più abbordabili, ma sempre fuori portata per centinaia di milioni di indiani. D’altronde, non è a loro che guarda la battaglia del caffè: possono continuare a bollire l’acqua, spesso contaminata, e a offrire il tè ai bordi delle strade: qui si parla di milioni di dollari, non di rupie, e il consumo del caffè sta diventando estremamente popolare tra gli indiani che possono permetterselo. È salito a 108mila tonnellate nel 2010: rispetto a dieci anni fa è l’80% in più.


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