Senza la patrimoniale il vicolo è cieco
Forse intimorito da un leggero calo negli ultimi sondaggi del Pd e di Sel, dunque della coalizione dei progressisti, Bersani gioca la carta di rassicurare i benestanti e afferma che il suo governo non farà alcuna patrimoniale. Dentro alla coalizione gli fanno notare che nella carta di intenti un accenno alla medesima, seppure troppo vago, ci sarebbe. Ma è appunto quella vaghezza che permette diverse interpretazioni, a seconda degli interlocutori e del momento. Il che comunque dimostra che un’incisiva riforma fiscale nella strategia bersaniana tutto è tranne che un punto programmatico su cui fondare una politica. Piuttosto è merce di scambio, facilmente cedibile quando bisogna evitare di epater la bourgeoisie, come si diceva ai tempi di Baudelaire e di Rimbaud.
Bersani sostiene che una patrimoniale c’è già , ed è l’Imu che bisognerebbe correggere in senso meno punitivo per i redditi più bassi. Vero, ma questo non esaurirebbe comunque l’argomento. Infatti non si tratta solo di intervenire sulle tante patrimoniali oggettive, cioè tassazioni delle cose, dal bollo dell’auto alla tassazione della casa di proprietà , che già esistono nel nostro ordinamento, ma bisognerebbe – e questa sarebbe la grande novità per il nostro sistema fiscale – di inserire una patrimoniale soggettiva, cioè una tassazione sulle proprietà immobiliari e finanziarie dei singoli soggetti.
I dati che periodicamente la Banca d’Italia ci fornisce sulla ricchezza delle famiglie italiane, dimostrano un dato di fatto inoppugnabile. Il tasso di patrimonializzazione della ricchezza italiana è ben superiore non solo agli altri paesi europei (con la sola eccezione del Regno Unito, cui è quasi uguale), ma anche al Giappone, agli Stati uniti e al Canada. In altri termini la ricchezza anziché venire rimessa nel ciclo produttivo prende la strada dell’ acquisto di titoli e beni finanziari, di immobili e di altre forme di capitalizzazione statica. Alla fine del 2011 la ricchezza netta delle famiglie italiane, cioè la somma di attività reali (abitazioni, terreni ecc.) e attività finanziarie (depositi, titoli, azioni ecc. ) era pari a 8.619 mld di euro (per inciso più di quattro volte dell’intero debito pubblico che ha recentemente sfondato i 2mila mld). Di questo ben di dio, il 45,9% è nelle mani del 10% delle famiglie più ricche, le quali nel bel mezzo della crisi più sconvolgente del capitalismo europeo, hanno aumentato le loro ricchezze rispetto all’anno precedente, mentre il restante 90% le ha sensibilmente diminuite (Banca D’Italia, Supplementi al Bollettino Statistico, “La ricchezza delle famiglie italiane”, 13 dicembre 2012, n.65).
Come si può facilmente intuire, anche dagli elementi di comparazione con i principali paesi capitalistici, una riforma fiscale in Italia che non contempli una qualche forma di patrimoniale soggettiva che raggiunga tutte le forme di ricchezza, è un buco nell’acqua. Tanto più che non si tratta di pensare a misure shock finalizzate esclusivamente alla riduzione drastica del debito, come quella di una patrimoniale dal gettito di 200 mld avanzata a suo tempo da Pietro Modiano, la quale potrebbe effettivamente incorrere nell’obiezione di favorire la precipitosa fuga dei capitali all’estero. Al contrario una patrimoniale è efficace quanto più è ordinaria e modesta nell’aliquota, ma produttiva di un buon gettito costante. A tali caratteristiche mi pare corrisponda la proposta avanzata dalla Cgil, che prevede una tassazione con una moderata progressività a partire dallo 0,5% sopra gli 800mila euro, in modo da preservare i risparmi medio bassi.
Se mettiamo in fila quanto scritto nella carta di intenti della coalizione, nonché le interviste di Bersani, come del responsabile economico del Pd Stefano Fassina – particolarmente attente a tranquillizzare i mercati finanziari internazionali, specialmente quando sono rilasciate a giornali inglesi o americani, come il Financial Times e il Washington Post – la “Bersanomics” si qualifica più per le proposte in negativo che quelle in positivo. Infatti non va toccato il pareggio di bilancio in Costituzione, di modificare il fiscal compact non si può neppure parlare, del no alla patrimoniale abbiamo detto, per lo sviluppo bisogna vedere come va il risanamento. Colpisce l’incapacità a liberarsi dei mantra, peraltro traballanti, del neoliberismo.
Peraltro si deve osservare che in assenza di crescita di qualunque genere, come previsto dalla stessa Istat, il tanto adorato pareggio di bilancio e soprattutto la riduzione a tappe forzate del rapporto debito/Pil possono essere conseguiti, o almeno tentati per chi ci crede, solo con un aumento delle entrate fiscali, cui non è sufficiente la tracciabilità fiscale di cui parla Bersani, né la più spietata lotta all’evasione e neppure il desiderato accordo con la Svizzera per una sorta di condono fiscale internazionale basato sulla tassazione dei capitali esportati in deposito con la garanzia dell’anonimato. O si introduce la tassazione sui patrimoni o si ammazza lo stato sociale. Tertium non datur. Verrebbe da osservare quindi che, paradossalmente, proprio i fautori del pareggio di bilancio e del fiscal compact, se non vogliono iscriversi alla storia come i becchini di ciò che resta del nostro welfare, dovrebbero essere i più inflessibili propugnatori di una patrimoniale seppure, nella loro distorta concezione, finalizzata esclusivamente alla riduzione del debito.
Eppure in tanti, fra cui lo stesso Fassina qualche settimana fa, abbiamo sottolineato la correzione di rotta del Fmi rispetto all’eccesso di politiche rigoriste praticate in Europa, l’autocritica sul moltiplicatore sbagliato nel calcolare la relazione fra tagli della spesa e conseguenze depressive sulla crescita economica, l’infondatezza dell’ossimoro dell’austerità espansiva. Fuori d’Europa si adottano ormai esplicitamente politiche diverse. Come si è visto Obama ha il suo da fare per evitare il fiscal cliff. Per ora ha segnato un piccolo punto a suo favore ma lo scontro vero è solo rimandato. Per non tagliare le spese sociali sembra deciso a chiedere al Congresso l’aumento della possibilità di indebitamento, peraltro già considerevole. Ma la novità più grossa viene addirittura dal Giappone, ove il governo di destra di Shinzo Abe ha deciso un’azione consistente per togliere il paese dalla stagnazione, basata sull’accantonamento del problema del debito pubblico e una politica aggressiva di spesa pubblica. Il tutto in un quadro di spinto nazionalismo che accentua le tensioni internazionali, particolarmente nelle relazioni con la Cina. E nato così un altro nuovo neologismo: Abenomics.
Si dirà che questo è possibile perché completamente diverso è il ruolo delle banche centrali di questi due paesi. Appunto. Questo dimostra che San Mario Draghi non basta. Non è sufficiente forzare le maglie del regolamento, aprire il rubinetto per le banche le quali a loro volta comprano i titoli di stato e così si possono ridurre in una certa misura gli spread. Bisognerebbe riformare radicalmente la costituzione materiale e formale della Ue e conseguentemente il ruolo della Bce. Ma questo non si può fare senza rimettere apertamente in discussione, assieme agli altri paesi europei in difficoltà , il fiscal compact, come almeno chiede il primo punto del programma presentato dalla lista di Rivoluzione Civile. Bersani farebbe bene a riflettere su questo, anziché varare campagne autolesioniste sul voto utile.
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