by Sergio Segio | 26 Gennaio 2013 8:59
Quasi perché siamo soliti chiamare “preghiera” l’invocazione, o la richiesta di grazie, o quelle noiosissime nenie che recitano formule senz’anima, senza partecipazione, senza canto. Queste «formule scritte da altri e assunte da noi senza che spesso riusciamo ad aggiungere nulla di nostro» non sono per Adriana Zarri vere preghiere perché «non consentono un libero e personale esprimerci e parlare col Signore».
Ma perché questa preghiera possa sorgere e scaturire spontanea e sincera con tutta la partecipazione del cuore bisogna ribaltare quella concezione teologica che descrive la terra come «valle di lacrime» o come «esilio», perché, scrive la teologa, monaco ed eremita, Adriana Zarri, se la terra è «la creazione bella e buona predisposta dal Signore per noi», se non è «un deserto, ma un giardino: il giardino dell’Eden», se «il Signore non ci ha messi in esilio, ma ci ha collocati nella nostra patria, nella casa che aveva amorevolmente preparato per noi», allora a questa patria, a questa casa, a questo giardino a questa terra dobbiamo essere fedeli e «pregare Dio per questa terra in senso proprio, questa terra di terra, per questo cielo d’aria e non per quello metaforico popolato dagli angeli, per questo cielo nostro, questo cielo di nuvole e di vento, percorso dalle ali degli uccelli».
Così risuona nelle parole di Adriana Zarri l’invocazione di Nietzsche: «Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra», ma risuonano anche le «sovraterrene speranze» a cui Nietzsche invita a non credere. Eppure la fedeltà alla terra di Adriana Zarri fa la sua comparsa anche nelle «sovraterrene speranze» se appena ascoltiamo l’invocazione della sua ultima preghiera: «E questo nostro dolce mondo, ti prego, Dio, fallo risorgere tutto, così com’è, perché è così com’è che noi lo amiamo, ed è così com’è che noi lo attendiamo quando “i cieli nuovi” e “le terre nuove” che ci hai promesso risorgeranno dal gran rogo finale. Ti prego, non dimenticartene, Signore, perché io aspetto di trovarle di là . Se non ci fossero ne resterei delusa, e in paradiso non può esserci delusione».
Possiamo leggere questo libro di Adriana Zarri, che prega il Signore con il canto che si leva dalla contemplazione delle sue creature e delle sue bellezze, che il succedersi delle stagioni offre nella loro varietà , in sintonia con la variazione che caratterizzala la gamma dei nostri sentimenti, come un libro lirico, mistico, non dissimile dalla mistica francescana. Ma Adriana Zarri non è solo questo. Perché da teologa ha anticipato il Concilio Vaticano II, e da voce libera e forte ha avuto il coraggio di ribaltare quella visione che il cristianesimo, dimentico del Vangelo, ha ereditato da Platone, il quale ha disprezzato la terra e il mondo sensibile per il mondo delle idee collocate sopra il cielo. Questa tradizione greca e non cristiana è stato ripresa da Agostino che ha deprezzato la città terrena per esaltare quella celeste, e da allora in poi la terra è diventata valle di lacrime e di dolore: il dolore che redime.
Quasi una preghiera, prima di essere un libro lirico o mistico, è un libro teologico, dove ciò che si chiede è di abbandonare il dualismo platonico e poi cristiano che oppone la terra al cielo, lasciando l’uomo senza quella patria, quella casa, quel giardino che il Signore aveva amorevolmente preparato per lui.
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